Io non mi emoziono mai.
Magari non mi butto neanche giù ma di sicuro non sono il tipo che si emoziona. Sai quelli sempre pronti a farsi battere il cuore appena qualcosa va in un modo che non si aspettano. Subito le lacrime agli occhi, il sorriso alle labbra. Poi magari piangono o si disperano.
No, non è il mio caso.
Solo un paio di cose riescono a scuotermi e a farmi sentire qualcosa che potrebbe assomigliare a un’emozione. Una di queste è l’odore del latte sul fuoco.
Non dovrei sorprendermi visto che ha una cadenza precisa. Dovrei aspettarmelo in un certo senso e poi cosa c’è da essere contenti in una schifosa tazza di latte dolciastro. Eppure.
Lo sento sempre soltanto mentre dormo, a dire il vero, e questo mi dà un fastidio che non vi immaginate. Quando sono sveglio non lo sento più, nemmeno mentre mia madre lo versa nella ciotola.
Del resto non è semplice distinguerlo nel tanfo di spazzatura che scende dalla discarica e intasa l’aria della nostra baracca.
Ci provo ogni volta, inutilmente. Provo persino a chiudere gli occhi come quando dormo. Una volta mi sono addirittura sdraiato per terra, ho buttato fuori il fiato e ho respirato profondamente con il naso. Niente. Solo l’odore di marcio.
Cosa ti frega, direte voi.
Beh, a qualcosa devo pure pensare quando la sera prima vedo dallo sguardo di mia madre che mancano poche ore. Quando sul muro ci sono sei segni, sei righe sul metallo lurido che vogliono dire solo una cosa. Domani. Sento il rumore del sasso che sfrega contro la parete e tutte le volte, anche se mi impegno a non farlo, strizzo gli occhi.
Li apro, guardo i segni. Non li conto perché non so contare ma col tempo ho imparato a valutare, diciamo così, quando sono sei.
Mio fratello allora mi guarda di traverso e mi fa una risatina. Forse si sente in colpa o forse è solo sollevato e se ne frega di tutto. Non lo so. Io non credo che avrò voglia di ridere quando mi troverò al suo posto. Ma non si può mai dire.
Mia sorella invece capisce al volo che ci siamo e ogni volta, ogni volta, attacca a frignare finché mia madre non la picchia. Non so chi glielo fa fare, voglio dire di beccarsi pure le botte, è proprio scema. In fondo siamo fortunati, è un solo giorno alla settimana.
Io vado a letto e cerco di dormire e di solito ci riesco, certo non subito, magari quando il traffico diminuisce. E dormo fino a che non mi arriva al naso l’odore del latte.
La vasca è una latta arrugginita. L’acqua è una brodaglia grigia che mia madre ha vuotato da uno dei secchi del tetto.
E’ sempre gelata, in estate e in inverno. Non so come mai sia sempre così fredda, forse è la ruggine che mi gratta i piedi che mi fa sentire così. Forse sono malato. Lo penso in silenzio, ovvio, non è il genere di cose che dico a mia madre se non voglio farmi ammazzare di botte.
Io me ne sto zitto e cerco di trovare qualcosa di buono nelle sue mani ruvide che mi fregano la pelle. Faccio finta che siano carezze, chiudo gli occhi, non parlo, spero che non si accorga che sto bene.
Mi tira fuori dalla vasca e mi struscia addosso uno straccio schifoso. L’ha trovato mio fratello due o tre giorni fa vicino all’autostrada. Lo chiama l’asciugamano rosso, ma non so come ha fatto a capirne il colore. Io lo vedo nero e non credo che sia davvero un asciugamano.
Il vestito della festa. La maglietta della Nike e i jeans blu. Li indosso ed è il momento più bello della mia vita. A parte quello in cui sento il latte, ovvio. Se avessi uno specchio ci starei davanti due ore. Non ce l’ho e mi accontento di questa vista della maglia dall’alto in basso, con il simbolo a sinistra vicino al mio mento.
Come vorrei mettermela quando gioco a pallone con gli altri, Dio, li farei morire di invidia. Invece mia madre non vuole e io non gliel’ho mai chiesto, né glielo chiederei mai. Questo è il vestito della festa, mica lo posso rovinare.
Mica la posso strappare questa maglia blu, beh, uno strappo c’è ma è piccolo e di fianco e non si vede se la infilo dentro i jeans. Sembro un calciatore con questa maglia, uno di quelli che a volte ho visto nelle televisioni degli alberghi.
A proposito, è meglio che andiamo.
Nel giorno dell’odore del latte e della divisa da calciatore c’è tensione quando esci di casa. Non lo so perché, non chiedetemelo, sarò troppo stupido per capirlo ma io di sicuro non sono nervoso.
Esco con mia sorella, attento a non pestare le pozzanghere di fango. Ah, dimenticavo, nel giorno della festa ho anche un paio di scarpe da tennis. Se no, che calciatore sarei?
Gli altri ci guardano male, mi arriva qualche spinta specie dai più grandi. Cosa ci vengono a fare, lo sanno come va a finire. Perdono solo del tempo.
Mi arriva qualche sputo ma me ne frego e non rispondo. Non parlo mai, io, figuriamoci oggi e con loro.
Poi tutto si assesta e cominciamo a camminare in fila verso l’aeroporto. Un paio d’ore a piedi, non c’è tempo da perdere.
Mica ci siamo solo noi. E lo dico per i più grandi, non certo per me e mia sorella. Noi siamo piccoli, io sembro più piccolo degli anni che ho, di solito ci sistemiamo nel primo gruppo. Ma non si sa mai.
Via via che ci avviciniamo alla nostra meta vediamo gli aerei sempre più vicini alla nostra testa. Sembra che li puoi toccare. Devo tirare mia sorella per un braccio, quella scema si ferma ogni volta e li fissa. Li guardo anch’io ma mi sembrano tutti uguali, a parte i colori sulla coda.
Non ho voglia di salirci sopra, ho paura che caschino da un momento all’altro. No, non ci salirò mai.
Strattono mia sorella e corriamo dietro al gruppo. I grandi hanno allungato il passo.
E’ buffo che non ci facciano entrare nell’aeroporto.
Le guardie stanno sulla porta e respingono quelli di noi che provano a passare, soprattutto i grandi che cercano di prendersi un po’ di anticipo.
Noi non ci preoccupiamo. Ci mettiamo nel parcheggio cercando di stare staccati gli uni dagli altri, ma non ci riusciamo perché siamo troppi.
Siamo un mucchio di bambini che copre un sacco di posto ed è difficile non notarci. Per questo sono buffe le guardie. Credono che tenendoci fuori dall’aeroporto è come se non ci fossimo.
Qualcuno ride alla scena dei grandi che vengono colpiti dal manganello dei poliziotti, qualcun altro tira un sasso contro quelli che implorano i tassisti incolonnati di farlo salire. Cercano di prendere vantaggio, bisogna stare attenti.
Io non rido e nemmeno ci provo con i tassisti. Io aspetto. Zitto e serio. Lascio la mano di mia sorella e la spingo un po’ lontana da me. Ora ognuno pensa per sé. Voglio spazio intorno. Fisso la porta a vetri che si apre e si chiude e aspetto.
Di solito escono in gruppo, con le valigie in mano e le facce stravolte dalle tante ore passate in aereo. Guardano verso il piazzale strizzando gli occhi per il riverbero. Vedono i taxi, vedono noi.
Quelli più timidi fanno finta di niente e se ne vanno subito con il taxi. Magari si sistemano più tardi in albergo, la nostra città ha mille soluzioni. Certo se fossero tutti così sarebbe un problema. Sono i peggiori, questi, li odio.
Per fortuna ci sono quelli che non hanno paura di attraversare il piazzale e di dirigersi verso di noi trascinandosi dietro la valigia sulle rotelle. Secchi, vedono e si avvicinano.
A quel punto i più grandi si giocano le loro carte disperate, fatte di fame e di miseria. Gli vanno intorno, gli prendono le valigie, gli sussurrano cose all’orecchio. Non hanno niente da perdere a questo punto, ma di solito non funziona. Alla fine li prendono a calci, qualcuno ride, io no.
Gli stranieri s i muovono tra noi come predatori, come i pesci carnivori che ho visto una volta in un film. Scelgono senza toccarci, quasi con un’espressione di schifo in volto.
Uno dei primi sceglie mia sorella e un altro bambino, fa loro cenno di seguirlo e si infilano in un taxi. Mi sembra che lei mi abbia detto qualcosa ma è passato un aereo e non ho sentito. Anche perché mi sono girato di là perché capisse che doveva farla finita.
Il primo gruppo è passato e io sono ancora qui. Sento il cuore che accelera piano. Non è mai successo.
Mi salva uno del secondo gruppo, quelli che io chiamo i paurosi. Di solito sono persone che vengono qui per la prima volta e sono un po’ intimoriti oppure sono così di carattere.
Rimangono impalati fuori dalle porte a vetro che continuano a aprirsi e chiudersi finché una guardia non gli chiede gentilmente di spostarsi. Guardano la scena dei predatori che scelgono per capire come si fa, molti di loro la prossima volta avranno la prima scelta.
Capiscono che è il loro turno quando le avanguardie dei grandi abbandonano il piazzale e si dirigono verso di loro ripetendo il loro rito inutile. Qualcuno di loro si sistema con un colpo insperato, qui giocano sulla novità e sulla paura degli stranieri.
Ho visto che mi guardava e ho sperato che mi chiamasse. Mi sono diretto verso di lui nel nugolo di bambini vocianti, io zitto ma sicuro. Ha indicato il taxi, ho tirato un sospiro di sollievo.
Anche questa volta mi sono salvato la vita.
Mi chiede come mi chiamo mentre il taxi spinge lentamente la coda di auto che va verso il centro.
Dico il primo nome che mi viene in mente, di solito ne uso uno facile da dire così gli rimane impresso ed è più contento. Rispondo a monosillabi, spero che non abbia voglia di parlare, io non ne ho di sicuro e mi fa fatica rispondergli anche se devo.
Ma sono stato sfortunato, mi sa. Deve essere italiano o spagnolo e non sta zitto un momento. Chiede e sorride, mi guarda, allunga una mano verso il mio viso e poi la tira subito indietro e guarda di nuovo fuori dal finestrino.
Mi dice di sorridere e io lo faccio.
Sono distratto dalla maglia che indossa. Nazionale del Brasile, Nike. Dio mio, come vorrei averla.
Lui se ne accorge e mi accarezza la testa, stavolta senza paura. Dice che dopo me la regala ma tanto non ci credo. E’ già successo. Alla fine forse si vergognano a pensare che qualcosa di loro rimanga qua. Preferiscono lasciare solo i soldi.
E lo preferisco anch’io. Mia madre mi ammazzerebbe di botte se arrivassi a casa senza soldi e con la maglia. Eppure ci spero ancora un po’ che me la lasci.
Mi chiede come mi sembra e io sgrano gli occhi in un modo che deve sembrargli buffo perché scoppia a ridere. Non lo sa che io non li guardo mai. Li vedo ma non li guardo mica.
Con qualche sforzo mi concentro sulla sua faccia e gli dico che mi sembra giovane, molto giovane. Lui ride di nuovo e si avvicina un po’ più a me mettendomi un braccio intorno alle spalle.
Sta un po’ in silenzio e mi aspetto la domanda solita. Infatti mi chiede quanti anni ho.
“Otto”, rispondo e vedo quella luce che gli passa negli occhi.
Ho paura che ci ripensi, ne dimostro di meno e forse l’ho deluso, ma mi tranquillizzo quando vedo che prepara i soldi per il tassista.
Non mi guarda più negli occhi ora. Non si gioca più, ora si lavora.
E quella maglia me la posso scordare.
Qualcuno ti lascia andare dopo poche ore.
Qualcuno ti tiene con sé tutta la notte o anche per i due o tre giorni della vacanza, ma è una fortuna che a me non è mai capitata.
Qualcuno è generoso, qualcuno ti dà pochi spiccioli e ti costringe a cercare altro lavoro prima di tornare a casa se vuoi evitare le botte.
Qualcuno è gentile, qualcuno è rabbioso o violento.
Qualcuno, la maggior parte a dire il vero, alla fine ti insulta e ti caccia via forse per la vergogna o forse perché è fatto così.
Tutti, tutti si portano via un pezzo di te quando tornano all’aeroporto verso le loro case, verso le loro famiglie, verso i loro bambini.
E tu devi tornare a casa, dare i soldi e sforzarti di tornare alla vita normale per pochi giorni. Devi cercare di riemarginare quello che ti hanno strappato, di trovare una giustificazione, di non pensare troppo.
Di lasciare la mente vuota fino al mattino in cui risenti l’odore del latte.
Secondo le stime del locale Ministero del Turismo ogni anno arrivano in Thailandia due milioni e mezzo di turisti a scopo sessuale. Sono in maggioranza giapponesi, tedeschi, inglesi, scandinavi, americani, e italiani. Un quarto sono donne.
Cercano rapporti sessuali con bambini e ragazzi di entrambe i sessi, dai quattro ai sedici anni, che sopravvivono all’orrore con psicofarmaci, droghe e alcool. Spesso si suicidano, specie quando non sono più in grado di lavorare.
“Donne a dieci anni, vecchie a venti, morte a trenta”, dice il detto di Patpong, la strada di Bangkok dove si vendono.
Si stima che i bambini che si prostituiscono siano due milioni nella sola Asia.
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