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Archive for febbraio 2011

Mozione

Siccome i costumi di Carnevale costano un botto e siccome da anni e anni a Carnevale piove sempre e i costumi restano inutilizzati, beh, perchè non spostare il Carnevale ad Agosto?

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Nemesi

Un paio di anni fa, in un grigio pomeriggio di novembre, ho investito una ragazza mentre facevo retromarcia in un parcheggio.
Aveva in braccio un bambino, per cui lo spavento era stato doppio.
Fortunatamente il bambino non si è fatto niente, andavo pianissimo, lei è caduta a terra ma ha tenuto il bambino in braccio.
La ragazza, invece, da subito ha accusato dolori, ha voluto sdraiarsi, chiamare l’ambulanza.
Poi collare e un sacco di giorni di referto, l’ho rivista un mese dopo e ancora, diceva, stava male.
Secondo me un male incompatibile con quanto accaduto ma io non sono nè un medico nè un perito dell’assicurazione, quindi ha ragione lei (non mi quereli però se legge questo blog, cosa della quale dubito, ho detto che ha ragione).
Poi mercoledì è toccato a me di trovarmi nella parte dell’investito, da un furgone che non si è fermato sulle strisce.
L’impatto era, secondo me, più o meno simile, se non più forte visto che il tizio che stava alla mia sinistra è stato spinto da me un metro in là ed è caduto.
Avrei potuto sdraiarmi a terra, accusare dolori, chiamare l’ambulanza, i vigili, far ritirare patenti, eccetera.
Invece ho detto vabbè, scambiamoci i dati, casomai, poi – dopo varie insistenze – sono andato al pronto soccorso per verificare che tutto era ok e per prendermi un minireferto.
L’importante è star bene, ma una volta nella vita essere furbo – nell’accezione peggiore del termine – non mi dispiacerebbe.

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(poesia d’amore, ponte e fondale romantico)

Signore, lei disse, se io mai dovessi
Un giorno uccidermi per pena di amore
Lo farei qui tra ninfee bianche e rosa
Lo farei qui in quest’acqua vischiosa

Perchè signore freddo è il mio cuore
E non so più se sono capace di amare

Madame, lui disse, su non scherzate
Vorrei essere il vostro girasole
A voi rivolgermi col fuoco dell’amore
E farvi ardere ed arrossire

Perchè da tempo non provo più amore
E di essere capace vorrei ritornare

Così dicendo sul ponte arrivarono
Lui la sfiorò lei si scostò
Lei resistette lui la baciò
Lei si negò poi si avvinghiò

O dolce lotta o erotica prova
Su un piccolo ponte, sconoda alcova

Amor li avvinse amor li spinse
Il parapetto sottile crollò
E si scoprì che sapevano amare
Ma nessuno dei due sapeva nuotare.

(Questa meraviglia è nel nuovo minilibro di Stefano Benni, Le Beatrici, assieme ad alcuni bellissimi monologhi scritti per il Teatro dell’Archivolto di Genova, a una canzone scritta per De Andrè e ad altre cose)

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Dimmi, che fai?

E’ che a un certo punto della mia vita ho deciso che da grande avrei voluto lavorare nei supermercati, il che la dice lunga sul mio equilibrio mentale ma questa è una storia di cui parleremo un’altra volta, voglio dire il fatto che uno fa economia e master per andare a caricare le scatolette. Ma ne parleremo un’altra volta, ho detto.
Quello che invece volevo dire, ora, è che è curioso che quando lavori in un supermercato la gente ha un sacco di domande da farti.
Tipo che i pranzi con gli amici passano pontificando se è meglio il Dash o il Dixan, se i saldi siano veri, quale sia il prosciutto migliore e così via.
Perchè alla fine quella della spesa è una cosa che diverte tutti ed è, anche se non si direbbe, un bell’argomento di conversazione, specie se a parlarne è uno che come me amava moltissimo quello stramaledetto lavoro.
Insomma, intere serate a parlare del layout (che è come sono disposti gli scaffali nel negozio) e del display (che è come sono disposti i prodotti sullo scaffale).
Visto, ricomincio.
Poi però sono finito a lavorare in un centro per l’impiego, quello che la gente chiama ufficio di collocamento, e i miei argomenti di conferenza si sono fatti improvvisamente meno interessanti.
Che un po’ va bene citare il poveraccio che hai intervistato o l’imprenditore che ti ha chiesto un laureato minorenne con vent’anni di esperienza.
Ma alla seconda già non c’è più un cazzo da dire.
Infine sono arrivato qua, un posto dove si aprono i container e si controlla che i malvagi cinesi, o i loro malvagi complici italiani, non importino armidrogamissiliveleniorobatarocca.
Sarebbe pure interessante come argomento di chiacchiera, forse, ma forse sono io che non ne ho voglia.
Quindi quando mi chiedono del mio lavoro, a tavola, io rispondo con una formula standard che qui non posso ripetere.
Che inibisce l’interlocutore dal chiedere oltre.

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Il libro di Paolo Nori, La matematica è scolpita nel granito, è una meraviglia, anche se si fatica a leggerlo senza tavoletta e quindi finirà che me la compro.

Per esempio è appena uscito un libro, per la collana bianca di Einaudi, in cui sono raccolte le poesie di Nino Pedretti, poesie nel dialetto di Santarcangelo di Romagna, che dev’esser un paese, Guerra, Baldini, Pedretti, che son dei poeti, eccezionali, non so, ne leggo una, di Pedretti, in una traduzione un po’ rimaneggiata:

Non ditemi che il mondo è brutto,
malato, ridotto in merda,
il mondo ha bisogno di esser bello,
anche se ti urla il cuore,
anche se ti strappano le dita.

Ecco questa poesia qua, secondo me, quando ti chiedono, delle volte te lo chiedono, «Perché scrive?» che è una domanda che non è tanto bella, sentirsela fare, che potrebbe sottintendere un’altra domanda «Perché non fa magari dell’altro», io quando mi chiedon così gli rispondo «Per disperazione», che non è una gran bella riposta però è vero, io mi son messo a scrivere per disperazione, Luigi Malerba una volta quando gliel’han chiesto lui ha risposto «Per capire quello che penso», che è una bella risposta, ma secondo me, a pensarci, una risposta ancora più bella sarebbe questa qua, «Perché scrive?» «Non ditemi che il mondo è brutto, malato, ridotto in merda, il mondo ha bisogno di esser bello, anche se ti urla il cuore, anche se ti strappano le dita».

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Sei meglio!

I social network li hanno inventati i ristoratori, ormai è noto.
Certo, hanno investito sulle infrastrutture all’inizio, le reti, i server.
Poi però ora è tutto guadagno, con le cene delle rimpatriate tra ex compagni di scuola, ex colleghi di lavoro, ex vicini di casa, ex amici, ex amanti, ex parenti e via con tutti gli ex che non si vedono da cent’anni e finalmente, grazie al social network, riscoprono l’impellente bisogno di sedersi assieme attorno a un tavolo.
Io, che ci sono passato, devi dire che avevo una paura fottuta.
Paura, innanzitutto, di non ricordarmi il nome, la faccia, l’esistenza delle persone e di fare la figura di quello cinico o, peggio, smemorato o, peggio ancora, rincoglionito, che poi vagli a spiegare che tu hai cambiato quattro lavori in questi venti anni e quindi mescoli i ricordi che è un piacere.
In effetti quando ci siamo visti, l’altra sera, non ero il solo a non ricordare, in quell’effetto generale tipo sopravvissuti agli incidenti aerei.
Siamo scesi dalla macchina nel buio della campagna pisana, ci siamo guardati, e ci siamo incasellati:
1) quelli che ti ricordi bene, anche le cose che vi dicevate, gli amici;
2) quelli che riconosci ma non ti ricordi il nome, e allora o chiedi o ci provi (io ci ho provato due o tre volte) sparando il nome sbagliato;
3) quelli ai quali ti presenti come se non li avessi mai visti e loro ti snocciolano gli episodi in cui tu eri protagonista;
4) quelli che non ti ricordi di loro e loro non si ricordano di te, e molti di questi probabilmente non c’entrano con la serata e sono dei passanti.
Passato il primo sbandamento ci si pongono le domande di rito, che hai fatto?, figli?, lavoro? e ci si dicono le cose che ci si aspetta, sei uguale! sei meglio! sei ringiovanito!.
Che io mi aspettavo molti “sei meglio!”, visto che in effetti lo sono – anche se sembra strano – rispetto a quando avevo ventitre anni, invece ho avuto molti “sei uguale”, che io capisco che fossero senza cattiveria ma per me erano come i famigerati “sei invecchiato” che nessuno, almeno a voce alta, ha tirato fuori.
Ci si siede, e per quanto possiamo essere in cento si riformano i gruppetti di quattro-cinque, che sono quelli che andavano insieme alla macchinetta del caffè.
Si mangia, ma non ti ricordi cosa perchè la tua memoria è in subbuglio da tutte queste emozioni che vengono shakerate come latte e frutta del frappè.
Qualcuno scatta le foto, che sono tipo prove utili a testimoniare che tutti quei “sei meglio” erano, qualche volta, evidenti balle.
Poi la serata scivola verso la fine, recuperi qualche chiacchiera con quelli che sono più lontani, giusto il tempo di rinfrescare che quello fosse davvero stronzo e l’altra fosse davvero gnocca come ti ricordavi, pacche sulle spalle per una memoria sempre più in trance, qualche scambio di mail e promesse di sentirci.
E ci si saluta, ciao ciao, ci si rivede chissà quando.
Non prima di aver ringraziato chi ha avuto la pensata di riunirci, facendosi il mazzo per contattare tutti e prendendosi il rischio di prenotare una stanza e di trovarsela mezza vuota.
Dico Davide, non il ristoratore.

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Canzone, cercala se vuoi

Prima di tutto dovrebbero vietare l’utilizzo dei nomi delle canzoni per i film e i libri.
Perchè quelli come me, ma non è che voi siate differenti, poi gli rimane in testa la canzone e se la cantano ogni maledetta volta che vedono il manifesto del film o la copertina del libro.
E questo, se può essere simpatico in qualche caso, è una rottura di palle nella maggior parte.
Rete4 dà la centesima replica di “Stand by me”? E tu parti dentro di te con “when the night…”.
Sul tuo comodino c’è “Un giorno” di David Nicholls. E viene fuori un Guccini d’annata con dedica alla figlia (“e un giorno ti svegli stupita e di colpo di accorgi”).
Giusto per fare due esempi.
E dire che se nel caso dei film la cosa alla fine è sopportabile (“Notteeee primaaa degli esamiiii”, poi cambi canale e finisce lì), nel caso dei libri per me è un dramma.
Perchè con i libri vivi per diversi giorni, ti buongiornizzano sul comodino la mattina quando ti svegli e sono l’ultima cosa che vedi quando spegni l’abatjour. E magari te li porti pure dietro, come faccio io, per uffici e pause pranzo.
E avere sempre, dico sempre, la litania in testa – poi sempre ancorata alla prima strofa – ti farebbe odiare anche la canzone che ami di più al mondo.
Ora ad esempio, e veniamo al punto, sto leggendo un acclamato libro giapponese* che ha come titolo una canzone inglese.
E passo le giornate a pensare che una volta ho incontrato una ragazza o, dovrei dire, lei ha incontrato me.
Stramaledetta la ragazza, la sua cameretta e tutto il legno.

*Non dirò il titolo per evitare il solito che mi scrive che quel libro è una palla quando sono a pagina 2, che poi io mi faccio influenzare e lo mollo lì.

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Maria, la pesciaiola

Alla Maria era bastata la prima occhiata alle gocce d’inchiostro sul pavimento della canonica per capire che era successo qualcosa di irreparabile.
La vita le aveva fatto il regalo non richiesto di un’intuizione particolare per comprendere le sciagure che le cadevano addosso quando meno se l’aspettava.

Aveva imparato molto tempo prima. Quel giorno che aveva visto le nuvole addensarsi nel cielo di Monterosso appena finito di stendere le lenzuola buone del corredo e imprecando si era apprestata a tirarle dentro.
Aprendo la finestra per tirarle dentro aveva visto in strada la Betta, sua cognata, che guardava verso di lei coprendosi la bocca.
Con l’ingenuità dei vent’anni aveva cercato di capire perché la sorella del marito stesse a prendersi i primi goccioloni del temporale e le aveva urlato che se non aveva niente da fare poteva salire a darle una mano.
Aveva visto che non si muoveva e notato le lacrime che sul suo volto si mescolavano alla pioggia. Mentre gridava il nome del marito aveva lasciato cadere il lenzuolo con il pizzo cucito da sua madre per il matrimonio. Era stato usato poche notti. Non l’avrebbe usato più.
Il suo cuore gonfio dell’entusiasmo per la nuova vita che aveva appena imboccato si era inaridito in un momento, diventando grinzoso come una mela dimenticata sul davanzale.
Non pianse quando le spiegarono del temporale improvviso e della barca rovesciata. Non pianse quando una mattina all’alba la chiamarono sulla spiaggia a riconoscere il corpo che il mare le aveva voluto restituire.
Non pianse neppure quando lo vide scendere sotto la terra del cimitero di Portovenere, il paese dove era nato guardando i flutti infrangersi sugli scogli e dove avrebbe voluto riposare sentendo il suono della risacca.
Pianse solo un mese dopo il funerale quando una mattina di sole salendo verso la strada un conato di nausea improvviso la costrinse a piegarsi in due dandole la certezza che suo marito non se ne era andato del tutto.
Aveva lasciato dentro di lei un pezzo di sé. Suo figlio Enrico.

Credette per un po’ di anni che la mela dentro il suo petto si fosse intrisa di acqua fino a tornare bella soda e lucida come all’inizio.
Lo credette fino al giorno in cui il mare decise di completare il lavoro lasciato a metà e chiese al vento di trasformarlo in un animale affamato di vita.
Come fosse andata non interessava granché alla Maria. Non le interessava sapere che un ragazzo stava per annegare e che Enrico si era buttato per salvarlo. Che era riuscito con l’incoscienza dei suoi quattordici anni a raggiungerlo e a legargli la sagola intorno alle spalle.
Che gli aveva salvato la vita prima di sparire tra i flutti saziando per un po’ di tempo la fame del mare. Le interessava solo che era morto suo figlio.
Quando le parlavano non ascoltava. Teneva gli occhi verso quella distesa azzurra che ora sembrava irriderla con la sua tranquillità.
La guardava. Cercava di capire il motivo. E la odiava furiosamente.
Odiò il mare e il vento, poi odiò Dio ed infine odiò la gente.
Odiò per molti anni e ad ogni stilla di odio si sentiva il cuore inaridire un pochino in più. E non capiva come quella mela secca potesse ancora asciugarsi, stringersi sul torsolo, avere ancora semi da far cadere.

Un giorno di primavera era seduta sul molo ad aspettare che arrivasse la barca con il pesce per il suo negozio. Aveva scelto di fare la pesciaiola.
Forse aveva pensato così di uccidere un po’ alla volta il suo nemico e piano piano di vendicarsi. O forse era solo un lavoro come un altro che le riempiva le giornate e le impediva di pensare.
Teneva le gambe a penzoloni giù dalla massicciata del molo e allungava le dita dei piedi cercando invano di sfiorare l’acqua.
Quel prete che non aveva mai visto le si sedette vicino. Si levò le scarpe e i calzini bianchi. Sollevò i pantaloni neri fino al polpaccio e fece dondolare le gambe fissando l’acqua con gli occhi azzurri.
La Maria notò con la coda dell’occhio che il prete riusciva a toccare l’acqua e provò una breve stupida invidia.
Il silenzio durò alcuni minuti in cui il prete sembrava concentrato sui pesciolini argentati che si avvicinavano incuriositi al suo piede. Poi parlò con una voce profonda che metteva serenità.
“Dio è misericordia, Maria”, disse continuando a fissare l’acqua.
“Dio è un assassino e il mare è il suo sicario”, rispose la donna senza dare peso al fatto che il prete conoscesse il suo nome. “Sa come dicono i vecchi di qui? U mà, u l’ha u nume cun lè. In dialetto mare e male sono la stessa parola. Il mare non è la vita, è la morte, hanno ragione i vecchi.”
“Vedi, Maria. Se io pensassi che quello che ti è accaduto è un disegno divino mi toglierei questo crocifisso e lo butterei in mare. Lo guarderei andare a fondo e gli chiederei di mangiarselo come ha fatto come i tuoi.”
Respirò sentendo che la donna piangeva.
“Tu hai ragione di essere arrabbiata. Ma devi capire che Lui non ne ha colpa. Che quel giorno ha pianto. Dio è amore e mai avrebbe voluto che il tuo amore si spezzasse.”
La donna fece per dire qualcosa ma fu zittita da un gesto delicato della mano del prete.
“Guarda, stanno arrivando i pescatori. Non vorrai che ti vedano piangere.”
Le accarezzò i capelli, si rialzò prendendo in mano le calze e le scarpe e si avviò sul molo tenendo i pantaloni sui polpacci. Dopo pochi metri si fermò per mettersi a posto i capelli neri mossi dal vento.
“Io mi chiamo Ernesto. Sto un po’ di giorni qui se hai voglia di fare quattro chiacchiere.”

Si scosse dai ricordi e si fece forza di attraversare lo studio. Vide il computer portatile di Don Ernesto con lo schermo rotto che emergeva dietro una catasta di oggetti.
Sentì un brivido lungo la schiena vedendo la sedia con la gamba spezzata in mezzo alla pozza di…
“Di sangue”, si disse.
Fosse stata la Luciana o la Luisa avrebbe pensato che ci potessero essere ancora speranze. Che magari il parroco era riuscito a scappare. In fondo c’era il sangue ma non c’era nessun corpo.
Ma la Maria con il suo doloroso istinto non la fregavi con le illusioni. Anche se la mela si era un po’ reidratata l’istinto non era scomparso.
Entrò nella camera da letto e abbassò l’interruttore della luce. Il tremore aumentò vedendo sul letto il cadavere dell’uomo che trent’anni prima le aveva reinsegnato l’amore sedendosi vicino a lei sul molo di Monterosso.
Fece per carezzare il volto sporco di sangue e i capelli che erano tornati scuri come quella volta ma si fermò con la mano a pochi centimetri da lui.
Scorse lo stesso la mano senza toccarlo e singhiozzò piano.

(nel mio cassetto, tra i proverbiali calzini, c’è un romanzo che ho scritto dieci anni fa. forse si chiama “altro me stesso” o forse “salmo 55”, ancora non si decide. questo è il capitolo in cui maria, la pesciaiola di monterosso, scopre il cadavere di don ernesto. maria, peraltro, è esistita davvero come donna e come pesciaiola ma questa storia del marito e del figlio l’ho inventata io, che la realtà non è mica così drammatica)

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Stasi

L’utilizzo del pc da parte di Franci cominciava ad essere preoccupante, quindi ho fatto sessione autonoma con limiti e parental control.
Mi sento come un personaggio del film “Le vite degli altri”.

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Crisi di coscienza

Stamani un’impiegata di banca mi ha accreditato 2000 euro invece di 200.
Io subito l’ho avvisata, un po’ perchè ho pensato a mio fratello che è un suo collega e spesso ci rimette di tasca sua quando sbaglia, un po’ perchè istintivamente mi è venuta così.
Ma, e c’è un ma grande come una casa, io quando sono generoso mi aspetto gratitutidine, enorme gratitudine.
Anche le lacrime non guasterebbero.
Invece lei, dopo il primo istante di imbarazzo in cui è arrossita e mi ha ringraziato, si è ricomposta e ha detto “capita, ma tanto ce ne accorgiamo alla quadratura”.
E allora a me mi è venuto da pensare “ciccia, la prossima volta ce la giochiamo sulla quadratura, quando non ti torneranno i conti e suderai e perderai un’ora a ricontrollare nervosamente tutte le operazioni e magari, chissà, non scoprirai che hai sbagliato con me e io avrò 1800 euro in più e tu dirai accidenti a me che non sono mai abbastanza grata quando i clienti mi segnalano i miei errori e mai più mai più sarò la stronza che sono stata fino ad oggi”.
Così, è tipo una parabola sulla gratitudine.

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