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Archive for the ‘Recelibros’ Category

Vediamo di non usare l’aggettivo geniale, che non si dica che questa è una recensione entusiasticamente banale.
Ecco, diciamo fragolino.
E’ fragolina l’idea di fondo che regge questa ragnatela di storie della Egan: quella di creare molti diversi racconti che, sparsi per il tempo e per lo spazio, mostrano diversi momenti nella vita dei protagonisti e dei loro amici e parenti.
La Egan sparge per i racconti indizi su quello che il lettore troverà nei racconti successivi, costringendolo in qualche modo a un esercizio di lettura/memoria per ripescare le connessioni al momento opportuno e magari a una rilettura generale alla fine.
Fragolino, no?
Poi è fragolina l’idea (molto discussa e criticata) del racconto con le slides e anche il capitolo finale che ci porta in un futuro non lontano ma già inquietante.
La Egan dipinge con grazia i suoi personaggi, che mi hanno ricordato a tratti sia Franzen che il Coe della saga dei Brocchi: meno Proust (mi spiace per l’autrice), perchè non sono abbastanza fragolino e colto per conoscerlo.
Sasha, Bennie, Drew, Lulu e gli altri sembrano tutti barcollare sotto l’incedere del tempo (che è, appunto, un bastardo) e appaiono inevitabilmente indirizzati a baratri più o meno metaforici, che per fortuna talvolta evitano in extremis.
Un libro strepitoso (Pulitzer 2011), da leggere – è estremamente scorrevole e leggibile – e rileggere assolutamente.
Il problema di libri come questi è che alla fine ti lasciano un vuoto che fai fatica a sceglierne un altro.

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Le grandi città si assomigliano fra loro, ogni piccola città è piccola a suo modo.

Ma forse Dario, se avesse visto Spezia, penserebbe il contrario. Perchè la sua Nuoro, descritta in “Fine della corsa” di Fabrizio Casu, appare a tratti asfissiante come le mille città della provincia italiana devono apparire ai loro abitanti. Altrettanto insopportabile e altrettanto, e questo è il guaio, subdolamente magnetica con i suoi richiami che si sentono dall’infanzia.

Dario non ne può più di Nuoro, e ormai è una barzelletta il fatto che se voglia andare. Lo sanno tutti che non se ne va.

Lui, però, stavolta l’ha pensata grossa. Ha ideato un piano – rapinare il posto in cui lavora – che, in un modo o nell’altro, lo costringerà a muoversi dal suo immobilismo, lo strapperà una volta per tutte dall’altalena tra nostalgie e rimpianti che caratterizza la sua vita.

Ma Nuoro sa come giocarsi le sue carte per tenerlo con sè. C’è Simona, l’amore di sempre che torna dal passato. Ci sono gli amici. C’è un fratello in ospedale che non è facile lasciare andare alla deriva.

Fino all’ultima pagina di questa convincente opera prima di Fabrizio Casu il lettore capisce che Dario è uno di quei personaggi a cui si vuole bene.

Perchè capisce che nelle sue debolezze, nelle sue aspirazioni e anche nel suo essere a suo modo un po’ coglione ci si ritrova molte delle cose con cui combatte da sempre.

Un eccellente esordio dell’amico Zen, che speriamo possa vedere al più presto la carta per essere letto da tanta gente, come merita.

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La macchia umana

“Non si trattava più di provare una maschera e scartarla, esercitarsi interminabilmente e prepararsi a essere. Era la soluzione, il segreto del suo segreto, con appna una goccia di ridicolo per renderla più saporita: il ridicolo che riscatta e rassicura, il modesto contributo della vita a ogni decisione umana.”

“Perchè c’è la verità e poi, ancora, c’è la verità. Per quanto il mondo sia pieno di gente che va in giro credendo di conoscerti, di conoscere te o il tuo vicino, l’ignoto è davvero senza fondo. La verità che ci riguarda è infinita. Come le bugie.”

Un altro capolavoro assoluto di Philip Roth.
Coleman Silk,l’uomo che fugge per ritrovarsi schiavo e finire paradossalmente sconfitto dalla propria menzogna.
Faunia, la donna che voleva essere una cornacchia.
Lester, il reduce del Vietnam che riesce a ordinare una zuppa cantonese.
Delphine Roux, si chiede perchè abbia lasciato la Francia.
Personaggi scolpiti con potenza verbale ed emotiva sullo sfondo dell’America, ancora un’Arcadia violata come nella “Pastorale”.
L’America dei pompini clintoniani e del muro dei veterani, ma anche quella che i negri dovevano starsene fuori, e non fino troppo tempo fa.
Coleman e Faunia, due anime che deflagrano e che faticheremo a dimenticarci, anche grazie all’ottimo film con Hopkins e la Kidman, che pur non potendo contenere tutto questo strepitio di libro è ruscito a condensare le scene salienti, le frasi più belle, il senso della macchia umana.

(Dopo due tentativi andati a vuoto (con Portnoy e Shylock) l’innamoramento per Roth è ormai conclamato.)

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La prima volta che ho letto Benni è stato per caso. Avevano regalato a mia mamma (chissà perchè) un libro dal titolo strano, Baol, e dalla copertina strana.
Lei ne aveva lette poche pagine, poi si era stufata e l’aveva mollato lì. E io me l’ero preso.
Mi ricordo i treni locali per andare a Pisa, lentissimi, che fermavano anche a Torre del Lago. Io che ero ancora uno studente universitario e sfogliavo quel libro dal titolo e dalla copertina strana senza capire, all’inizio, dove volesse andare a parare con quello stile ironico.
L’ho capito presto, dove volesse andare a parare, ed è stato un innamoramento folle, tanto che per anni, e forse ancora ora, quando mi chiedono quale sia il mio scrittore preferito dico ‘Benni’. Quando mi chiedono come vorresti saper scrivere dico ‘come Benni’.
Me lo ricordo, Benni, sul muretto del porticciolo di Vernazza, Barbara sdraiata al sole con la testa sulle mie gambe e io che leggo a voce alta qualcosa del “Bar sotto il mare” immaginando che quel bar fosse lì, a pochi metri da me.
Mi ricordo anche una pausa pranzo sul lago di Massaciuccoli, dieci minuti dal mio posto di lavoro di Migliarino Pisano. Poco distante da me la casa di Puccini, ma nelle mie mani al posto del libretto di Boheme c’era “La compagnia dei celestini” e io leggevo a bocca aperta dei giochi di pallastrada e del pilota invisibile che guida il caccia invisibile.
Poi tutto il resto. Qualcosa che ho amato poco (Elianto, Spiriti), qualcosa che mi ha fatto piangere (Saltatempo, Margherita Dolcevita).
Un pomeriggio a Sarzana, Festival della Mente, mi sono pure avvicinato come l’ultimo dei fans per annusarlo e per fargli domande inopportune, prima che altri mi scostassero sgarbati. Gli avevo chiesto tra l’altro il significato del finale di Margherita e lui mi ha guardato come un mentecatto, perchè non si chiede agli autori il senso dei libri, eh, lo so, idiota che sono.
Ora che ci penso in tutti questi anni l’ho tradito una sola volta, Benni. Non ho comprato l’ultimo suo libro, uscito per Sellerio. Va beh, siamo pari con quando mi ha trattato male.

(Sembra uno di quei post che si scrivono quando uno muore. Invece è solo una botta di nostalgia affiorata stamani quando mi hanno parlato di Baol. Maledetta vecchiaia.)

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Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo. Era magico il nome, come l’eccezionalità del viso. Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inespressiva maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov.

Philip Roth, Pastorale Americana
Capolavoro assoluto. Un libro ostico perchè non scegle mai la via più semplice. Ma la complessità narrativa voluta da Roth non è mai fine a sè stessa, piuttosto rappresenta la deliberata scelta di costruire un labirinto di parole che trasmettano il crescente disfacimento della vita dello Svedese, dell’America, di noi stessi.
Confesso che mi ha fatto venire in mente il fine – ma non lo stile – spietato di Franzen, quasi un suo figlioccio anche se decisamente meno letterario nel descrivere i mali della middle class americana vista come un Arcadia che nasconde inferni sotto il tappeto.

E infine sappiate che il movimento di un piattello non colpito in movimento contro l’immensa volta di lapislazzuli del cielo in mare aperto assomiglia al cammino del sole – vale a dire arancione e parabolico e da destra a sinistra – e che quando il piattello sparisce nell’acqua tocca prima col bordo, non fa schizzi ed è triste.

David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più
Era invece un amico di Franzen David Foster Wallace, lo scrittore americano di culto morto suicida nel 2008. Sono stato cinicamente ispirato alla lettura di questo libretto dalla faccenda della Costa Concordia, dalla quale ho scoperto che DFW aveva dedicato uno scritto alla sua esperienza in una crociera extralusso.
Non so se questo sia significativo della scrittura di DFW (e in particolare del suo libro-mito Infinite Jest che per la sua mole e complessità potrò leggere solo trovandomi in un’isola deserta con quello come unica fonte di lettura) ma di certo è fottutamente divertente e abbastanza – non troppo – cattivo.
Val la pena di essere letto.

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A un certo punto c’è questa scena in cui Leonardo ha appena saputo che la sua Beatrice sta morendo di leucemia.
Allora scappa da scuola dopo aver mandato a quel paese il professore e sparisce.
E quando lo trovano i genitori lo mettono in punizione per tutto l’anno.
Poi però il padre rientra nella stanza e gli dice (con parole di un retorico che non saprei ripetere) che lui una volta aveva lasciato la scuola per un buon motivo e che è orgoglioso di lui, che finalmente è un uomo, eccetera.
“Bianca come il latte, rosso come il sangue” di Alessandro D’Avenia – professore prestato alla letteratura e aspirante Moccia – è tutto così.
Leonardo parla in soggettiva come si suppone parli un sedicenne, facendo metafore che includono Nutella, Playstation e supereroi.
Ha un’amica fedele che è innamorata di lui e aspetta solo che l’altra muoia per prenderselo (ops, spoiler).
Ha un amico fedele con il quale fa gli sfidoni in motorino e le partite di calcio.
Alterna fasi di scoramento quasi prossime al suicidio con altre di entusiasmo irrefrenabile, spesso nelle stesse righe.
I genitori e in genere gli adulti non capiscono una mazza di lui e degli altri suoi coetanei, salvo poi dargli le dritte giuste al momento giusto.
Insomma, magari i giovani d’oggi sono davvero così e D’Avenia li conosce meglio di me.
Allora la prossima volta si faccia scrivere il libro da uno di loro, che magari la prosa è più decente.

(Perchè l’ho finito, vi chiederete. Per vedere Beatrice morire, non prima di aver lasciato un’ultima lettera insopportabilmente retorica. Perchè me l’ero imposto, visto che da un po’ di tempo abbandono i libri. Ma voi, che potete, non fatelo. O almeno leggetelo in cartaceo, che potete lanciarlo contro il muro quando l’irritazione supera il limite.)

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Rapitori

Ogni dieci, quindici libri te ne capita uno che ti rapisce.
Allora lo leggi in ogni dove, fermo al semaforo, in coda alla posta (non dico in questi giorni, che in coda alla posta puoi leggere tutto Guerra e Pace), mentre aspetti a un appuntamento. Aneli di avere un’occasione per leggerlo, benedici che dovrai andare dalla dottoressa e troverai dieci persone in attesa. Aspetti con trepidazione la campanella del pranzo che ti porterà da lui. Lo occhieggi durante le pause del lavoro.
Chissà cosa trasforma un libro in un rapitore. Forse un storia in cui ti identifichi, una trama particolarmente attraente, la fame di sapere cosa succederà.
Forse è che i personaggi ti diventano amici o fratelli e allora vuoi sapere come gli va la vita.
Lo divori, già sapendo che quando finirà ti lascia un buco nella pancia che neanche ti immagini.
Dieci, quindici libri che trovi carini o noiosi o interessanti e poi, bum, quello che ti rapisce.

(Vi scrivo dalla prigionia in cui mi tiene “Libertà” di Jonathan Franzen. Non venitemi a cercare, mi farò vivo io)

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Ecco, se uno dovesse dirmi “spiegami cosa ti fa ridere, qual’è la tua idea di umorismo” io parlerei dei coniglietti suicidi.
Sono piccole tavole disegnate da Andy Riley che ritraggono dei buffi e teneri coniglietti impegnati a trovare impensabili modi di morire. Che detta così non fa ridere, e ne farebbe anche meno se vi facessi un esempio (tipo stamani ne ho visto uno in cui il coniglietto si travestiva da lupo per essere ucciso dal cacciatore ma una volta accortosi che al posto del cacciatore c’era un lupo si è affrettato a togliere il travestimento per mostrare al lupo che è un coniglietto e invitarlo a mangiarlo, visto, così non fa ridere), esempio che non vi farò.
Capisco che quel tipo di umorismo, che somma ironia surreale e sberleffo macabro, il tutto sparato con un colpo secco, possa non piacere a tutti.
A me, invece, fa schiantare e perciò dovrei evitare di leggerlo in mezzo alla gente, come ho fatto stamani.

Qui un breve video riassuntivo della prima saga dei coniglietti suicidi. Qui la scheda wiki in inglese.

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Ci sono due regine disadorne nel libro di Maurizio Maggiani.
Una è Sascia, la Singerina, arrivata nel porto di Genova dalla Sardegna all’inizio del secolo scorso. Aspetta il ritorno di un ragazzo e teme l’arrivo di un elefante.
L’altra è Lucy, la ragazza della Polinesia che incontra il prete missionario, se ne innamora e lo sposa, a modo suo. Canta bene, ma non come l’usignolo che le ha dato il nome.
Ci sono i due popoli, quello disincantato dei camalli e dei carbunè genovesi da una parte e quello fantastico e sognatore degli abitanti di Moku Iti, l’isola che sta abbastanza lontana da tutto da salvarsi, almeno finchè non arrivano i soldati.
E poi ci sono gli uomini, bellissimi ed epici ma mai all’altezza delle loro regine.
Il romanzo di Maggiani è a tratti trascinante, con la sua inesauribile galleria di personaggi e di sensazioni.
Tutta la storia della Genova di inizio secolo è, per me, perfetta. Mi sono ritrovato meno nell’oblio del racconto di Moku Iti, nell’estenuante storia della costruzione della strada, nella quale pure si riconosce la poesia della scrittura di Maggiani.
Ma l’inizio e la fine, perfettamente inverosimili e circolari, bastano a rendere indimenticabile questo libro.

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“Se un alieno atterrasse sul nostro pianeta inondato di luce solare, rimarrebbe stupefatto scoprendo che noi riteniamo di avere un problema energetico, e che abbiamo perfino pensato di risolverlo avvelenandoci con i combustibili fossili o il plutonio.
Immaginate di imbattervi in un uomo ai margini di una foresta, sotto un diluvio di pioggia. Quell’uomo sta morendo di sete. Nella mano ha un’accetta con la quale abbatte alberi per succhiarne la linfa dai tronchi. Ogni albero ne produce pochi sorsi. Intorno, è tutta una devastazione di piante senza vita, non si sente più il canto degli uccelli e l’uomo sa che la foresta sta scomparendo. Allora perché non rovescia il capo e non si disseta? Perché è esperto nell’abbattimento degli alberi, perché ha sempre fatto cosi, perché considera sospetto chi raccomanda di abbeverarsi di pioggia. La luce del sole è come quella pioggia. Una fonte di energia che inonda il nostro pianeta, ne condiziona il clima e la sopravvivenza. Si riversa costante su di noi, una dolcissima pioggia di fotoni.”

Ian McEwan, Solar (un libro divertente, bellissimo, minuzioso, profetico)

(passo citato anche nell’editoriale dell’ultimo numero di Internazionale)

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