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Archive for the ‘racconti’ Category

Nel paese di Chissadove un bel giorno trovarono un elefante.
Che non sarebbe strano, se solo Chissadove si trovasse tra le giungle del Tigrestan, ma invece è proprio strano, visto che Chissadove si trova in Italia, tra Unposto e Quellaltro.
Il primo ad accorgersi dell’elefante fu Luciano, il fornaio.
Che, per mestiere, ogni notte si alzava alle quattro e attraversava la piazza del paese, svoltava dopo la chiesa e frenava puntando i piedi in terra di fronte al suo forno.
Quel bel giorno Luciano infilò il vialone, passò la piazza, svoltò dopo la chiesa e, nell’istante in cui puntava i piedi a terra, realizzò che poco prima aveva visto un elefante.
“Sto ancora sognando”, pensò.
Tornò indietro trascinandosi la bicicletta, passò la chiesa e lo vide.
Grande, grigio, mezzo addormentato. Un elefante. A Chissadove.
Il sindaco saltò fuori dal letto non appena sentì suonare il campanello e, senza nemmeno accorgersi che era ancora notte, si vestì e spalancò la porta.
Luciano il fornaio lo fissava con occhi spiritati e borbottava qualcosa a proposito di un elefante e della piazza.
“E’ matto, ma è pur sempre il fornaio”, pensò il sindaco, per il quale i filoncini croccanti di Luciano erano la seconda gioia della vita dopo la sua amata moglie.
Quindi lo seguì in piazza e furono in due a spalancare la bocca di fronte all’elefante, che li fissava con curiosità.
Da lì in poi fu un alternarsi di gente che passava per caso e si immobilizzava con altra gente che veniva dopo aver sentito che c’era un elefante e, nondimeno, una volta arrivata si immobilizzava a sua volta.
In poche parole quando il campanile, ignaro dell’elefante, suonò le otto la situazione era curiosa. In mezzo un elefante che muoveva lento la proboscide vagamente infastidito. Attorno tutti gli abitanti di Chissadove immobili con la bocca spalancata, che per fortuna in quella stagione non c’erano le zanzare altrimenti chissà quante ne avrebbero mangiate.
Ma già al rintocco delle otto e mezza lo stupore lasciò posto al caos e i presenti, come di solito si usa tra gli umani del pianeta terra, si divisero in fazioni pronte a litigare.
Il primo gruppo, capitanato da Luciano il fornaio, litigava sul perché un elefante fosse finito in piazza a Chissadove. Qualcuno tirava in ballo gli alieni, altri l’inquinamento atmosferico, altri ancora le migrazioni dei popoli. La voce si alzava senza che nessuno ci capisse niente.
Il secondo gruppo, che si stringeva attorno al sindaco, si concentrava invece sul cosa fare di un elefante in piazza a Chissadove.
“E’ una grande occasione per rilanciare il turismo”, esclamò Antonio l’albergatore, che già vedeva le sue stanze occupate per tutto l’anno da orde di bambini intenzionati ad ammirare l’elefante.
“No, facciamoci dei salamini di elefante”, provò ad inserirsi Piero il macellaio prima di essere sommersi da una bordata di fischi.
Un terzo gruppo propose di caricarlo sul camion dei traslochi e di portarlo in Africa o in Asia, che non erano molto ferrati sulla provenienza degli elefanti ma erano almeno tutti d’accordo che a Chissadove ci potevano stare solo pecore e mucche.
Così scorse la giornata, senza che nessuno si mettesse d’accordo su niente.
L’elefante li guardava curioso e ogni tanto faceva un passetto a destra o a sinistra giusto per non farsi addormentare le zampe.
Li vide accapigliarsi, stancarsi di discutere e infine tornare nelle loro case per il pranzo e la cena, diminuire ogni volta, alla fine sparire del tutto.
Quando si alzò la luna l’elefante era solo nella piazza di Chissadove.
“Nessuno ha pensato a darmi da mangiare e da bere”, mugugnò tra sé prima di chiudere gli occhi per il sonno.
Poche ore più tardi Luciano il fornaio infilò il vialone, passò la piazza, svoltò dopo la Chiesa e…
L’elefante era sparito, pensò. Tornò indietro trascinando la bicicletta pensando che forse era passato troppo in fretta.
Dove c’era l’elefante c’era un vuoto, che sembrava ancora più vuoto una volta tolto l’elefante.
Luciano il fornaio chiamò il sindaco, che svegliò l’albergatore, che chiese al prete di suonare le campane.
Non erano ancora le sei che tutto il paese di Chissadove era raccolto intorno a uno spazio vuoto, immobile e con la bocca aperta.
Ma non passò molto tempo prima che gli abitanti si scuotessero dallo stupore e ricominciassero, manco a dirlo, a litigare.
Chi pensava che quelli di Lìvicino erano venuti a rubarlo, chi pensava che fosse uno scherzo del prete, chi diceva meglio così e chi diceva peccato però.
Se fosse stato ancora lì l’elefante e se avesse potuto parlargli gli abitanti di Chissadove avrebbero saputo perché non c’era più.
“Perché mi annoio a vedervi litigare”, avrebbe detto l’elefante.
E poi, in qualche modo, sarebbe di nuovo sparito.

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Un’altra primavera

Della prima volta che abbiamo cominciato mi ricordo le tue lacrime, così simili alle gocce di soluzione che ora scendono lente nelle tue vene.
Piangevi in quel tuo modo strano che non prevede nessun suono, appoggiata alla manica del mio pile, e con le dita strappavi piccoli pezzi di carta dal fazzolettino già appallottolato e incapace di prendere altro della tua disperazione.
Disperazione stupida, avremmo capito più tardi, come solo può essere stupida la disperazione di una ragazza di sedici anni di fronte alla prima grande delusione amorosa della sua vita.
Disperazione infinitamente grande in quel momento, per chi ancora non sa niente ed ha il diritto sacrosanto di distorcere la percezione dell’importanza delle cose.
Io stavo lì, la manica bagnata e una mano sulla spalla, e recitavo la parte abusata del migliore amico che consola la ragazza della quale è sempre stato innamorato senza che lei abbia mai fatto cenno di accorgersene.
Mi spiaceva di essere così felice di averti tra le mie braccia ed ero pronto ad una lunga consolazione quando, improvvisamente ed inspiegabilmente, erano finite le lacrime ed era spuntato un mezzo sorriso.
E ancor prima che potessi interpretare cosa ciò stesse a significare quelle labbra stavano già sulle mie.
Siamo stati insieme per soli tre mesi, in quel primo inizio.
Ci siamo fatti la prima canna insieme e ci ha fatto schifo nello stesso modo.
Abbiamo festeggiato la prima notte di primavera su un argine del Po guardando l’unica stella che si era fatta spazio tra le nuvole.
Ci sono state promesse e proiezioni, sufficientemente esagerate e improbabili come si conviene a due sciocchi adolescenti innamorati.
Ci sei stata solo tu, in quei tre mesi che mi sono sembrati lunghissimi a ricordarli dopo, solo tu e sembrava non ci fosse spazio per nient’altro.
Invece c’era, ed era fuori dalla scuola, una mattina.
E tu ci hai messo poco a dire che forse stavamo sbagliando qualcosa, che io ero davvero il miglior amico che potesse immaginare di avere e che probabilmente quella dell’affetto che si trasforma in amore era davvero un’ingannevole illusione.
Non ero d’accordo, ma non ebbi validi argomenti per contrastare quella repentina fuga da me.
Ti guardai, nei giorni successivi, di nuovo felice e abbracciata a lui, conservando la mia manica per l’inevitabile occasione che sarebbe capitata.
L’occasione venne, ci furono altre lacrime a inzuppare la mia maglia, ma questa volta le labbra rimasero serrate e io, vagamente rassegnato, tornai amico consolatore.
E così rimasi fino alla fine delle superiori, quando chissà come finì anche il nostro affetto e le vite ci portarono altrove, in posti diversi.
Dopo ripensai che ci eravamo lasciati anche da amici, e senza dircelo.

Chiedo a tua sorella se può lasciare la stanza. Le dico che è stanca, di andare a prendersi un caffè.
In verità ho voglia di piangere un po’ da solo, che io quando ho gente intorno ancora mi vergogno.
Controvoglia lascia la stanza dell’ospedale, come era uscita dal bar il giorno in cui abbiamo cominciato per la seconda volta, anche allora un po’ scocciata perché aveva capito che te la volevi togliere di torno.
Mi avevi visto entrare nel locale con la faccia annoiata che avevo in quei giorni, frettoloso come sempre nelle mie pause pranzo, desideroso solo di trovare un angolo in cui stare zitto e leggere il giornale.
Mi avevi osservato mentre digitavo qualcosa sul telefonino, probabilmente un messaggio a mia moglie per dirle che non avevo tempo di andare a prendere il bimbo in palestra. Eri rimasta in silenzio per qualche minuto mentre mi sedevo e ordinavo alla cameriera.
Poi avevi attirato la mia attenzione e io, finalmente, mi ero accorto di te e ti avevo riconosciuto dopo aver messo a fuoco quella nuova pettinatura e quell’espressione che non ti avevo mai visto.
Quando mi sono seduto al tuo tavolo hai iniziato a parlare e quasi subito mi hai chiesto se ero felice, non hai aspettato la risposta, hai detto che tu, invece, non la eri per niente.
Hai raccontato di un matrimonio che diventa presto disinteresse, con pericolose e rapide virate verso l’odio. Hai detto che tuo marito era una brava persona ma tu, semplicemente, banalmente, avevi capito di non amarlo e poi di non sopportarlo.
Non avevi e non volevi figli, hai detto poi, per favore non dirmi se tu ne hai, che per oggi non ho voglia di notizie felici.
Eri nervosa e stanca, inevitabilmente cresciuta dalla ragazzina che consolavo ma ancora capace di quello sguardo di chi cerca nell’altro la conferma della sua fragilità, ora diversa e tangibile ma non meno insopportabile.
Tua sorella è ricomparsa nella vetrina mezzora dopo, facendo segno con le chiavi della macchina, e tu hai scarabocchiato il tuo numero di telefono su un foglietto e me lo hai passato, fatti vivo, ho parlato solo io, non so nemmeno come stai, e te ne sei uscita di corsa senza voltarti.
Due mesi dopo eravamo in una camera d’albergo a fissare il soffitto in silenzio dopo aver fatto l’amore.
Ero passato da amico a niente e poi ad amante in soli tre bruschi passaggi, non sapevo cosa sarebbe capitato, lasciavo che le cose andassero senza nutrire aspettative.
Quando la passione sessuale svanì, e non ci volle molto, cominciasti ad essere ossessiva, a parlare di progetti. Mi chiamavi sul lavoro, mi aspettavi fuori dalla palestra, mi cercavi a ogni ora del giorno.
Ti aggrappavi a me, terrorizzata all’idea del mio abbandono, pur cosciente della mia vile incapacità di andarmene lasciando macerie.
Così proseguimmo ancora, vedemmo un altro inizio di primavera, e poi, sorpresa, fosti tu ad andartene maledicendomi per tutto quello che ti avevo illuso e che non ti avrei saputo dare.
Rimasi zitto, ero rimasto zitto per quasi tutta la storia e non era certo il momento di iniziare a parlare, pensai che forse avevi trovato un’altra persona, mi dissi che era meglio così.
Ti guardai uscire e sparire, un’altra volta, dal mio spazio di esistenza.

Ora è quasi buio nella tua stanza.
Tua sorella è qui e ti fissa dallo stipite della porta con aria disperata. Ogni tanto passa lo sguardo su di me e ancora mi torna all’orecchio la sua voce al telefono, in quel mattino di primavera, solo tre giorni fa.
Stavo correndo in tribunale e allo squillo ho sperato che fosse la cancelleria per avvisarmi dell’annullamento dell’udienza, era invece un numero sconosciuto, il tuo, che avevo cancellato dalla rubrica quando te ne eri andata la seconda volta.
Risposi e dall’altra parte sentii una voce che non conoscevo ripetere un nome di donna, nominare un ospedale, chiedere aiuto, corri subito da lei, subito.
Prima ancora che capissi cosa stava succedendo c’è stato una fitta di dolore e mi sono fermato per respirare.
Poi, quando le parole hanno preso forma e ho capito che quel nome eri tu, sono corso in ospedale.
Tua sorella era appoggiata fuori dal Pronto Soccorso e fumava guardando il viavai della ambulanze, gli occhi asciutti, la bocca tirata.
Quando mi ha riconosciuto ha soffocato alcuni singhiozzi e mi ha messo una mano sulla spalla, nello stesso punto ti eri appoggiata tanto tempo prima, e ha iniziato a raccontare.
Mi ha raccontato del bambino, che non volevi avere e che invece stava per arrivare, e di te che avevi tirato fuori a sorpresa il mio nome che non dicevi da anni, glielo dobbiamo dire quando nascerà, chissà come sarà contento.
Mi ha raccontato del giorno in cui lo hai perso, delle urla di tuo marito stravolto dal dolore che partoriva l’odio che aveva nascosto in sé tutto quel tempo, incapace di contenerlo, tu stordita da un dolore che non aveva più spazio e ignorava la sua rabbia.
Alla fine lui se ne è andato, un addio tra persone civili come voleva lui, sentiamoci, e tu avevi confuso la libertà con la felicità.
In quei giorni parlavi di me, mi ha detto tua sorella, ma non mi avevi voluto chiamare, aspetterò il momento giusto e stavolta non me ne andrò più.
A volte, mi ha detto, ti interrogavi sulla mia vita che quando eravamo amanti ti era sembrata così normale da essere insopportabile e spesso mi detestavi per questo e con la stessa forza mi invidiavi e cercavi di capire se me la meritavo davvero, questa vita insopportabile e normale, o se fossi stato solo fortunato.
Se mi avessi chiamato avrei provato a spiegarti, a lenire il tuo male che cresceva mentre ti rendevi conto di non riuscire a ripartire, ti avrei detto che io non valgo un cazzo, sono solo uno che gli va tutto bene nella vita, che non ho meriti per quello che mi è stato regalato.
Ma non mi hai chiamato.
E’ toccato a tua sorella farlo poco dopo averti trovata per terra, nel bagno in mattonelle rosa della casa che tuo marito ti ha lasciato, il sangue attorno alle tue braccia e alle tue mani che sporcava il tappeto di ciniglia sotto il lavandino.
Sei rimasta così per cinque ore, ha detto il dottore, cinque ore nelle quali io, se non fossi stato altrove, avrei potuto cercarti, fermarti un attimo o una vita prima. Cinque ore in cui sei stata sola e ora tua sorella se ne prende la colpa perché, dice il dottore, cinque ore sono tante.
Le dico di non pensarci, che non serve a niente, ripeto che nessuno ha colpa e altre banalità che sono sempre stato bravissimo ad infilare.
Ora il tempo è fermo, non ci sono più ore, minuti, primavere.
Bisogna solo aspettare, fissare le gocce della flebo che scendono in te come le lacrime di allora e aspettare che succeda qualcosa, qualsiasi cosa, aspettare.
Oggi iniziamo per la terza volta, Ester, e questa volta non ti lascerò andare.

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In-attesa

Qualcuno può pensare, sbagliando, che il momento più difficile sia il salto.
Certo, qualche difficoltà c’è, ma niente di paragonabile a tutto quello che c’è prima, alla scelta del posto da cui ti butterai.
Quello sì è un lavoro faticoso, perchè anche se non ne sai di balistica devi riuscire a trovare un luogo che sia abbastanza alto da garantirti un botto, “il” botto decisivo.
Quindi niente ostacoli che si mettono di mezzo, balconi, auto posteggiate, tende di negozio.
Noi non stiamo cercando gambe rotte o traumi cranici. Stiamo cercando di ammazzarci.
Alla fine, se sei fortunato, lo trovi e tiri quasi un sospiro di sollievo simile a quello che tirano quelli del bungee quando trovano il ponte perfetto, anche se in verità loro poi tornano su.
Comunque, dicevo, il momento del salto è il meno. Sai che ti aiuta la forza di gravità e a volte basta sbilanciarsi un po’ e va da solo.
La fregatura, almeno per me, è stata il dopo.
Perchè mi aspettavo un istante di volo e poi che finisse tutto.
Invece da qualche parte qualcuno ha deciso che per chi si butta il tempo si ferma in una specie di lungo stand-by, in un’antipatica pausa che ti divide dall’agognato arrivo del suolo che mette fine al tuo progetto.
In quei momenti, superata la prima fase di comprensibile stupore, non sei abbastanza lucido per vedere il film della tua vita o cazzate del genere.
Non sei nemmeno dell’umore adatto per ripensare alle ragioni che ti hanno portato qui – e a questo punto chi se ne frega – o a rimpiangere quello che hai perso.
Non chiedi seconde chance. Niente di tutto questo.
Sei solo incazzato – e vagamente annoiato – per questa attesa inattesa che sembra durare all’infinito.
Poi, grazie al cielo, arrivi.

***

Questo post potrebbe partecipare all’EDS Attesa, se solo sapessi di cosa si tratta e non copiassi, al solito, da Hombre e da Melusina.

PS. Ci sono anche firulì firulà, Lillina e Speakermuto
E Dario.

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Quest’anno niente

Quest’anno non ce l’ho il racconto di Natale, aveva pensato da subito. Era ancora inizio settembre e già compariva sul telefonino l’sms con cui lo chiamavano a rapporto.
Vi siete abituati bene, aveva pensato, ma quest’anno dovrete fare a meno di me.
In realtà non lo sapeva nemmeno lui il motivo per cui quest’anno, per la prima volta negli ultimi dieci anni, non avrebbe scritto nulla per Natale. Tra sé e sé si diceva che era necessario un periodo di stacco, che odiava le ripetizioni, che aveva già detto tutto quello che doveva dire.

Il racconto spiritoso lo aveva fatto, ed era pure piaciuto. Ancora adesso qualcuno ai buffet, appena lo riconosceva, si avvicinava e dando di gomito ripeteva “Quel Tommaso… quante risate mi ha fatto fare”. Che lui già odiava i buffet, non essendo mai stato capace di tenere in equilibrio piattino e tartine con il panico che qualcosa finisse per terra, specie se il coglione di turno lo sgomitava per dirgli di Tommaso. Poi figurati se uno diceva che quelle quattro baggianate gli avevano procurato delle risa. Passava la fame.
Comunque quel filone lo aveva abbondantemente sfruttato e di questi tempi sapeva scrivere solo cose amare.

Solo che anche il racconto di Natale strappalacrime lo aveva già fatto. E, non per vantarsi, non sarà stato Dickens ma più di una, ai buffet, si aggrappava al suo gomito per sussurrargli sospirando “Ah, Sabrina, che ragazza sfortunata…”. Il che, oltre a causare nuovi sussulti al precario castello di salatini e vulevant, gli ricordava quell’odioso personaggio che era stato tentato di uccidere prima di optare per un più redditizio lieto fine.
In ogni caso, anche su quel fronte, nessuna possibilità.

Per un po’ se l’era giocata con la satira strettamente legata all’attualità, tipo il politico di turno che si trasformava in un Babbo Natale al contrario calandosi dal camino per portare via anziché per donare. Non staremo a dirvi dei fruitori di buffet più sagaci che, vedendolo da dietro, gli aggrappavano la spalla per avvicinarsi all’orecchio e dirgli che era un genio, forse persino il legittimo erede di Forattini. Cosa che gli causava una specie di convulsione alla mano destra e allora sì che le tartine se ne cadevano da sole.
Insomma, non c’era nessuna buona idea, pensava in quel mezzogiorno di settembre sulla spiaggia di Villasimius quando ricevette il messaggino. Che, anche volendo, con quel caldo porco, uno non riesce a concentrarsi sulla neve, le renne e tutto l’ambaradan.

Niente, non farò niente, si disse, solo che un attimo dopo la moglie spuntò dalla sdraio per ricordargli che la settimana successiva ci sarebbe stato il suo compleanno e di quella borsetta che aveva visto e lui capì che qualcosa doveva fare anche quest’anno.
Con un moto di disperazione pensò di riciclare qualcosa degli anni precedenti, ma lo avrebbero sgamato subito e non avrebbero nemmeno aspettato il buffet per dirglielo. Pensò di copiare qualcosa da un collega che stimava, ma sapeva che lui lo leggeva e non se la sentiva di rischiare la figuraccia (“Quando ti ispiri a qualcuno finisci per fare di peggio”, avrebbe detto davanti a tutti). Pensò di rifare qualche classico adattandolo ai tempi moderni, ma con l’ignoranza che impera nessuno l’avrebbe riconosciuto, probabilmente nemmeno il suo editor.

Alla fine si sdraiò al sole e si assopì. Al risveglio tutto era chiaro. Prese la rivista di sua moglie, una penna e, prima di dimenticarselo, appuntò l’incipit.
“Quest’anno non ce l’ho il racconto di Natale, aveva pensato da subito.”

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Coco Pops (un racconto)

Il primo ad accorgersi che non c’ero è stato il mio maestro.
E’ entrato in classe e ha borbottato un saluto senza staccare gli occhi dalla Gazzetta. Si è seduto, ha allungato la mano verso il registro, ha battuto le dita sulla scrivania per far capire che era il momento di sedersi. Poi finalmente ha alzato lo sguardo sugli alunni e, atteso qualche istante che gli ultimi prendessero posto, ha cominciato a leggere i nomi.
Presente, presente, presente, finché è arrivato il mio e non ha risposto nessuno. Il maestro ha lanciato un’occhiata verso il mio banco, ha arricciato il naso per un impercettibile istante e poi ha continuato l’elenco, dopo aver appuntato la mia assenza.
Quando è arrivata la ricreazione quasi non pensava più alla cosa, se non avesse incrociato nel corridoio la segretaria. Si ricordò che era amica di mia mamma e distrattamente le chiese se avesse mie notizie.
Niente.
Il maestro alzò le spalle e si allontanò nel corridoio. Ma ormai il meccanismo era messo in moto.
La segretaria rientrò in ufficio e mentre sorseggiava il caffè della macchinetta digitò rapidamente un sms a mia mamma. Tutto ok, chiese, Gabriele sta bene?
Certo, rispose mia mamma, ci sono problemi? C’è che non è a scuola, rispose quella, e in un attimo nella testa di mia mamma cominciarono a girare le rotelline.
Provò a ripensare alla mattina, scorrendola all’indietro come un film. La riunione con l’odiosa direttrice, e prima il collega che ci provava con lei aspettandola in ascensore, e prima ancora l’autobus con la vecchia sudata che spingeva alle spalle.
E prima? Il portone, e prima ancora la colazione in casa, la rassegna stampa in tv, lei che pensava alla riunione che ci sarebbe stata nel pomeriggio e… aspetta, ma Gabriele non c’era a colazione, pensò all’improvviso. Nella sua mente distratta e affollata c’era il fotogramma con la tavola apparecchiata per due ma, boh, mancavo io. E non ricordava neppure, se è per quello, di essermi venuta a svegliare, di aver insistito due o tre volte come ogni mattina, di avermi sollevato di peso per portarmi in bagno.
Niente.
Dopo un attimo di panico mia mamma, alla quale si può riconoscere una certa distrazione ma certo non la mancanza di autocontrollo, cominciò a mettere ordine nell’improvvisa anomalia che le metteva sottosopra la giornata.
E individuò l’unica risposta possibile. Doveva essere colpa di mio padre.
Prese il telefono e lo chiamò immediatamente. Non poteva venire, disse la segretaria, stava devitalizzando. Allora mia mamma urlò come sa fare lei e lui smise di devitalizzare.
La cosa buona di mia mamma, oltre all’autocontrollo, è la sua capacità di sintesi. Bastò sentire il suo tono e decodificare le parole “Dove hai lasciato Gabriele, coglione” e a mio padre si aprì una voragine di senso di colpa.
Perché lui è fatto così. Prima ancora di realizzare che quel giorno era giovedì (e io il giovedì dormo sempre dalla mamma, perché lui il mercoledì sera ha il tennis), prima ancora di capire cosa stesse succedendo iniziò a cercare la scusa che avrebbe minimizzato il danno.
Ma questa volta, purtroppo, non c’era nessuna possibile via d’uscita. Papà non aveva nessuna idea di dove fossi.
Semplicemente sapeva, e se ne sentiva inconsciamente sollevato, che non ero con lui. La sera prima era al cinema con Marina, anche se doveva dire che era andato al tennis. Poi aveva dormito e stamani era venuto di filato al lavoro.
Giusto per togliersi l’ultimo dubbio scostò la tendina dello studio e guardò verso la sua auto, ferma nel parcheggio. Il seggiolino era vuoto, notò tirando un sospiro di sollievo. Non era uno di quei padri che dimenticava il figlio in macchina, almeno.
La telefonata, a quel punto, divenne convulsa. Papà e mamma si urlarono addosso usando i tradizionali argomenti dei loro litigi.
Lei tirò fuori le donne, il calcio, quella volta sulla superstrada (che non mi hanno mai spiegato cosa fosse successo, perciò la devo prendere così com’è). Lui maledisse la fissazione maniacale di mamma per il lavoro, che la distraeva da ogni altra cosa – figli inclusi! – e si vide costretto a ricordarle di quando mi mandò a scuola con il pigiama sotto i pantaloni, il che forse non era pertinente alla discussione ma si sa che quando si litiga si dicono cose poco sensate.
Poi mamma fece una specie di singhiozzo, e allora per la prima volta si resero conto che non sapevano dov’ero finito e smisero di litigare. Papà mollò a metà la devitalizzazione e la raggiunse.
A casa chiamarono le mamme di un paio di miei amici, che qualche volta mi avevano ospitato, ma nessuno aveva notizie. I loro figli erano a scuola, io non c’ero andato? Non è che potevano dirgli che non lo sapevano, quindi presero tempo.
Chiamarono i nonni, usando il tatto necessario per non spaventarli troppo. E si beccarono i loro insulti, che ai loro tempi i bimbi non si perdevano mica, che è colpa di questi computer, che le donne devono lavare i piatti a casa, che sono degli irresponsabili, eccetera.
Niente. Dai cuginetti niente. Dalla vicina di casa niente. Niente.
Alla fine per disperazione tornarono a scuola, che era quasi l’ora di pranzo. Arrivarono alla porta della mia aula, bussarono ed entrando mi videro, seduto al mio posto.
Mamma disse qualcosa tipo “ora facciamo i conti”, anche se io non capivo per cosa, visto che ancora non sapevo nulla di quello che era successo. Papà le chiese se ora poteva tornare alla devitalizzazione, il cliente doveva essere infuriato. Mamma disse di tacere e di aspettare.
Il maestro approfittò dell’attimo di impasse per dare un’occhiata alle probabili formazioni della giornata successiva, ma fu prontamente investito da mamma che lo tacciò di incompetenza per non sapere nemmeno se suo figlio fosse in classe o no. Aveva detto che era assente e invece suo figlio era qua.
Assente?, disse il maestro, che aveva già dimenticato quanto accaduto solo poche ore prima.
Assente?, dissi io. Veramente non ero assente. Sono stato nella quarta fino alla ricreazione perché il maestro mi aveva detto di seguire la lezione sulla guerra di Troia, in modo da raccontarla ai miei compagni nelle ore successive.
Giusto, disse il maestro, che ora si ricordava perché non c’ero all’appello.
Tutto, alla fine, era chiaro. Mamma liberò papà che scomparve in un attimo in direzione dello studio. Poi attese fuori che suonasse la campanella.
Quando uscii la vidi, in fondo al corridoio, che mi fissava con una faccia strana, come se ancora le mancasse qualcosa da capire.
Si accucciò per arrivare alla mia altezza, mi avvicinò al mio orecchio e mi chiese, in un sussurro, cosa avessi mangiato a colazione.
I soliti Coco Pops, risposi.
Fece sì con la testa e mi sembrò rassicurata.

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Scusi, a che ora è

Il giorno del giudizio la gente se ne accorse subito, perchè il meteo del telegiornale aveva messo sicuro bello in tutta Italia e invece c’era dappertutto nuvoloso.
E poi era un nuvoloso strano, c’era questo colore violaceo che sembrava da un momento all’altro venisse giù il cielo ma si capiva che questa volta quel modo di dire – venisse giù il cielo – andava preso in modo letterale.
La borsa perse subito il venticinque per cento e il petrolio sfondò quota mille dollari al barile, e fin qui eravamo nella norma e nessuno si stupì.
A contribuire ad aumentare il panico come al solito furono i mass media. Specie quelli che avevano travisato e uscirono in edizione straordinaria dicendo che stava arrivando il comunismo.
Via via che si capiva che invece si trattava di altro le reazioni furono molto diverse.
Quelli che per tutta la vita avevano fatto del bene cominciarono a interrogarsi se il bene che avevano fatto fosse sufficiente. Quelli che invece erano convinti di aver fatto del bene, pur non avendo mai fatto un cazzo per il prossimo, si ritennero soddisfatti.
I preti erano i più preoccupati, e questo non fu un bene perchè davano l’idea di non aver creduto granchè a quello di cui avevano parlato fino a poco prima. Persino il Papa uscì con un comunicato generico, che secondo qualcuno gli aveva scritto l’addetto stampa e lui chissà dov’era.
Le nuvole, intanto, tremavano come ai concerti quando capisci che sta per iniziare.
Gli animali si muovevano nervosi, si dice che sentano prima degli altri le catastrofi. E in più tra loro si era sparsa la voce che stavolta non ci sarebbe stato Noè.
I politici vararono alcuni decreti, che stavolta nessuno poteva dirgli che mancasse il requisito dell’urgenza.
Un cantante scrisse una canzone sul tema, anche stavolta una cover dei REM. Schizzò subito in testa alla classifica.
Qualcuno fece l’amore, ogni scusa è buona. Qualcuno rimise i propri debiti, le banche nel dubbio decisero di aspettare qualche giorno. Intanto bloccarono i prelievi.
Infine la terra sembrò scaldarsi e tutti guardarono verso l’alto.
Il cielo si squarciò, sfilarono alcuni plotoni di angeli che si disposero dai lati controllando che tutto fosse pronto.
Poi fecero un cenno.
Lui uscì, e ciascuno lo vide come se lo aspettava e ne fu sollevato.
Qualcuno alzò la mano per dire una cosa a sua discolpa ma Lui fece cenno con la mano che ormai non c’era più tempo. Letteralmente.
Poi si schiarì la voce, una, due volte.
Allargò le braccia, prese un profondo respiro e con una voce antica, profonda e, va detto, intonata cantò.
“NON RESTARE CHIUSO QUI…”
E solo chi conosceva la risposta fu salvato.

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Posizione
Sono due cicatrici, abbastanza simili.
Quella che si vede è sotto l’ombelico, sopra il pube, ed è lunga una decina di centimetri.
Quella che non si vede è da qualche parte lì attorno.

Cause
Mi piacerebbe dire che la notte in cui sei nato è stata la più emozionante della mia vita, ma non sarebbe vero. Ce ne sono state altre, di notti strane, prima e dopo.
Di sicuro la notte in cui sei nato è stata unica, scusa la banalità, perché in nessun altro momento mi sono sentita così felice e triste nello stesso momento.
A ripensarci mi sembra di sentire il momento in cui il bisturi del medico incideva il mio addome per il cesareo, che è impossibile che lo sentissi perché ero mezza rintronata dall’anestesia.
Eppure riesco persino a immaginare il calore della mani dell’infermiera che preparano la parte da incidere e spalmano il dinfettante, la luce della sala, il freddo della lama che mi taglia in orizzontale.
Riesco a immaginare te, che sei lì dentro e vuoi uscire, e a immaginare me, o almeno una parte di me, che spera che tu rimanga lì, che magari ti rifiuti di venire fuori, che non ce la fai a nascere per qualche inconveniente, che mi sollevi per aver evitato questa cazzata.
Invece sei nato, te ne sei fottuto dei miei pensieri malati e sei nato.
Per fortuna, dico oggi.
Allora ero solo una ragazzina terrorizzata, che sentiva il sangue uscire dalle sue nuove ferite.
Quella del cesareo, che qualcuno in qualche modo avrebbe richiuso, e quell’altra, dentro, che sarebbe toccato a me tamponare, cucire, asciugare.
Poi mi hai guardato, per la prima volta, nel modo mezzo cieco con cui guardano i neonati, e mi sono rassicurata che ce l’avrei fatta, a sistemarla.

Conseguenze
Mi piacerebbe dire che quelle sono le mie uniche due cicatrici, ma non sarebbe vero. Ce ne sono state altre, prima e dopo. E io ho imparato, anche grazie a te, a volergli bene alle mie cicatrici.
Specie a quella che non si vede, che mi ricorda di quando non ti ho voluto e di quanto, ora, ti voglio.

(Barabba, quello di “Schegge di liberazione” e di “Cronache di una sorte annunciata”, ci chiama di nuovo all’ibucchismo e ci chiede di raccontare/inventare/immaginare la storia di una cicatrice, specificandone la posizione, la causa e le conseguenze. Qui c’è l’e-book per intero. E’ gratis, ancora stavolta.)

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Le cose che ci siamo persi, io e Amedeo, sono parecchie.
E non dico di prima, di quando da ragazzi non potevamo mai fare quello che volevamo perché quelli erano tempi che la fame picchiava parecchio e prima di divertirti dovevi riempire la pancia e mica era facile.
Vero che noi eravamo privilegiati, con il nostro lavoro che ci metteva nelle tasche poche lire con le quali fare un’uscita con le ragazze che se eri fortunato veniva fuori qualcosa di buono. Io lo vedevo arrivare all’officina, la mani ancora sporche di grasso e il sorriso furbo, e capivo che era la serata buona, che aveva avuto le palanche.
L’ultima di quelle uscite era stata pochi giorni prima di quel luglio, la sera che io avevo compiuto diciott’anni e l’avevo preso per i fondelli perché a lui gliene mancavano ancora due, per compierli. Ci eravamo ubriacati, quella sera, e davvero ci sembrava che non ci saremmo più persi niente.
Poi invece era successo che ci aveva chiamati Mario, uno che lavorava con Amedeo, e ci aveva chiesto se eravamo buoni fascisti. Gli avevamo detto di sì, più per fare bella figura che altro. Allora ci aveva chiesto se eravamo pronti a fare la guerra perché la rivoluzione fascista riuscisse. E noi mica ne avevamo voglia, di fare la guerra, io poi figurati che mio padre l’avevo visto partire per l’ultima e tornare dritto nella cassa. Però quando ti trovi lì e hai detto sì la prima volta poi ti vergogni a far vedere che hai paura e Amedeo mi fissava come a spronarmi, dai, digli di sì, che noi ci stiamo a fare la guerra.
Così ci siamo ritrovati in questa storia.

Una mattina abbiamo lasciato Spezia su un camion e ci hanno portato, assieme ad altri ragazzi, fino a Pontremoli. Dove era arrivato uno importante, da Firenze dicevano, che ci doveva dire delle cose.
Raccontò che la settimana prima avevano arrestato un comandante fascista, Renato Ricci di Carrara. Stava marciando su Sarzana per dare una bella lezione a quella città piena di comunisti, l’unica, cazzo, l’unica che ancora si rifiutava di aprire un fascio.
Che lo capisci bene che poi se ne rimane una dà l’esempio alle altre, e allora hai voglia del culo che ci siamo fatti per piegare Spezia, Massa e le altre città, basta un attimo e i comunisti mettono i loro soviet dappertutto.
Io non lo sapevo cosa fosse un soviet, ma certo non mi sembrava il caso di chiederlo, quindi rimasi zitto ad ascoltare.
Ricci pensava di farla facile, invece a fregarlo furono i carabinieri che presero lui e tutti gli altri e li rinchiusero alla Fortezza Firmafede. I carabinieri, roba da matti. Che invece di difendere i fascisti prendevano le parti di quei rossi maledetti. Roba da matti.
Ma stavolta Sarzana la lezione l’avrebbe avuta davvero, perché mercoledì sarebbero venuti dalla Toscana tanti di quei fascisti che non se lo immaginavano nemmeno. Avrebbero portato armi e benzina, così da mettere in piedi una festa che non l’avevano mai vista prima. Si andava a liberare Ricci.
E noi cosa c’entriamo, chiese uno.
Voi, disse quello di Firenze, prenderete Sarzana dall’altra parte. Lasciate Spezia martedì e vi sistemate vicino ad Ameglia. Poi aspettate fino alla sera successiva che qualcuno venga a dirvi che tutto è pronto. All’alba di giovedì entriamo.
Ti succede che il giorno prima facevi l’operaio e pensavi alle ragazze e quello dopo ti apprestavi a fare la guerra, che poi noi ce la siamo persa, ma quello è un altro discorso.

La sera del 19, martedì, stavamo sul greto del Magra a fumare. Amedeo tirava i sassi sull’acqua e stava zitto, cosa insolita per lui che sembrava che non smettesse mai di parlare. Poi quel suo collega, che sembrava fare da capo, si avvicinò a noi con una giacca in mano. La porse a me e mi disse di provarla. Mi misi a ridere e lui mi disse ancora di provarla. Non mi andava, stretta di spalle. Invece ad Amedeo andava alla perfezione, e lui aveva un’espressione strana mentre la indossava, che lui una giacca non se l’era mai messa e allora l’ho preso in giro e gli ho detto se pensava di essere un attore del cinema.
Poi Mario ci disse di ascoltare bene. Nella giacca, dentro, avevano cucito un messaggio. Erano cose importanti, non ci doveva interessare cosa. Ci chiese se ci piaceva correre, perché l’indomani avremmo avuto un po’ di strada da fare. Saremmo partiti la mattina presto in direzione di Carrara, passando dall’interno che sul mare c’erano i posti di blocco. Arrivati all’Avenza avremmo incontrato i carraresi e avremmo dovuto dargli il messaggio. Bastava essere svelti di gambe, tutto lì.
E noi abbiamo detto di sì, anche se un po’ ci dispiaceva di lasciare quel gruppo, che all’idea di arrivare di qua con gli altri spezzini ci eravamo affezionati. E poi avevamo paura di andare da soli, ma quello non ce lo dicevamo nemmeno tra noi, pensa agli altri. Comunque abbiamo detto di sì, ed è andata come è andata.

Quando siamo partiti ancora era buio e si vedevano solo le lucine delle sigarette accese di quelli che non dormivano. Amedeo si è messo la giacca addosso, io ho preso il sacchetto con un po’ di pane e siamo andati.
Ma di strada ne abbiamo fatta poca. Perché forse si era sparsa la voce, ma quando siamo arrivati a Romito c’era un posto di blocco. Noi, l’avrete capito, non avevamo mica il sangue freddo. Io se mi mettevi in mano un pezzo da tornire ero il più bravo del mondo, ma non è che sapevo cosa fare se ti fermavano in un posto di blocco. Amedeo mi ha detto piano di stare calmi, che non sarebbe successo niente. Ma io quando ho visto che avevano i fucili contro di noi, quando li ho sentiti urlare, non ce l’ho fatta.
Ho preso Amedeo per un braccio e l’ho tirato dietro, giù per l’argine.
Ma anche lì di strada ne abbiamo fatta poca, si vede che quel giorno era destino. Pochi passi e li avevamo addosso. Giù botte e poi parlare. Quando ci hanno perquisito e hanno trovato il foglietto è successo il finimondo. Ci hanno preso, portato via e, insomma, ci siamo persi la giornata più importante.

Che poi quella giornata non è stata quel che si dice gloriosa, per la nostra parte. Ma il risultato è stato raggiunto, in qualche modo, e quella è la cosa più importante, dicono.
All’alba di giovedì, che noi eravamo già mezzi rotti dagli interrogatori, la colonna dei fascisti iniziò a marciare su Sarzana. La città era sotto assedio, non c’erano vie di mezzo. O stavi di qua, e difendevi le mura, o te ne uscivi ad attaccarle. Dicevano che gli anarchici avevano messo il tritolo nella torre di Piazza Mazzini, figurati. Tutti insieme, comunisti, socialisti, anarchici, quei matti degli Arditi, pronti a respingere l’attacco.
A capo della colonna fascista c’era uno che si chiamava Dumini, e dicevano che avrebbe fatto una bella carriera. Lui era impettito come un napoleone, bello convinto che in quattro e quattr’otto avrebbero fatto pulizia di quei quattro barboni che stavano là dentro. E allora sì che sarebbero iniziate le feste, la benzina c’era apposta, i bastoni anche.
Invece quando arrivò alla Stazione ebbe una brutta sorpresa.
C’erano i carabinieri, di nuovo, e poi la pubblica sicurezza e l’esercito. Tutti uniti a dirgli di tornare indietro, che dovevano rispettare la legge, che si vede che non lo sapevano che la legge ormai era una cosa molto relativa.
Dumini non perse la calma e pose le sue condizioni. Chiese la liberazione di Ricci e degli altri e solo allora se ne sarebbero andati. Che probabilmente non era mica vero, che se ne sarebbero andati, perché tutti quelli che erano venuti da lontano, fino da Grosseto, ormai si volevano divertire. Ma lui lo disse.
Poi però qualcuno sparò, gli uni han dato la colpa agli altri, ed è stato un macello. Alcuni dei fascisti sono stati ammazzati subito, altri sono caduti a terra feriti. Il resto della colonna, e parliamo di centinaia di persone, si è disperso in pochi minuti mentre da Sarzana arrivavano i rossi ad infierire e a quel punto la forza pubblica aveva il suo bel da fare per far tornare la calma.
Noi ci siamo persi tutto, l’assalto e la rotta. I ragazzi che sono stati caricati su un treno fatto partire frettolosamente verso Carrara e quelli che sono scappati nelle campagne, stanati uno a uno dalle bande dei contadini rossi. A chi gli è andata bene sono state botte, tante, agli altri forconi nella pancia e corde attorno al collo. Un macello, vi assicuro.
Ci siamo persi il momento in cui vennero liberati Ricci e gli altri, che al procuratore gli sembrava la cosa giusta da fare per fermare il casino, ed è perciò che vi dico che alla fine in qualche modo tutto quanto è servito.
Ci siamo persi il momento in cui la polizia scovava gli ultimi fascisti, nascosti sotto il letto del capostazione, e li scortava fuori dalla città, che ancora restava libera dal fascismo.

La storia dei due ragazzi spezzini la dissero subito, a Renato Ricci, non appena arrivò a Carrara.
Lui ordinò che fossero cercati dappertutto e quando seppe che non erano tra i prigionieri disse di continuare a cercarli. Che bastavano i sedici morti di Sarzana.
Ma la notizia del martirio non sfuggì alla propaganda fascista e in poche ore i nomi di Amedeo Maiani, sedici anni, e di Augusto Bisagno, diciotto anni, divennero pretesto per nuove violenze in tutto il Paese.
I loro corpi furono ritrovati una settimana dopo a Ghigliolo, sulla collina che porta a Fosdinovo. Sfigurati dalle torture, probabilmente uccisi dopo che avevano detto quello che sapevano.
Sarzana ebbe un governo democratico fino al 25 gennaio 1923.

(Questo racconto è stato scritto per l’iniziativa Schegge di liberazione 2011 e uscirà sul libro che raccoglie alcuni dei contributi inviati, presentato a Fossoli (Carpi) il 25 aprile. Ci sarà anche un e-book, vi saprò dire.)

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Maria, la pesciaiola

Alla Maria era bastata la prima occhiata alle gocce d’inchiostro sul pavimento della canonica per capire che era successo qualcosa di irreparabile.
La vita le aveva fatto il regalo non richiesto di un’intuizione particolare per comprendere le sciagure che le cadevano addosso quando meno se l’aspettava.

Aveva imparato molto tempo prima. Quel giorno che aveva visto le nuvole addensarsi nel cielo di Monterosso appena finito di stendere le lenzuola buone del corredo e imprecando si era apprestata a tirarle dentro.
Aprendo la finestra per tirarle dentro aveva visto in strada la Betta, sua cognata, che guardava verso di lei coprendosi la bocca.
Con l’ingenuità dei vent’anni aveva cercato di capire perché la sorella del marito stesse a prendersi i primi goccioloni del temporale e le aveva urlato che se non aveva niente da fare poteva salire a darle una mano.
Aveva visto che non si muoveva e notato le lacrime che sul suo volto si mescolavano alla pioggia. Mentre gridava il nome del marito aveva lasciato cadere il lenzuolo con il pizzo cucito da sua madre per il matrimonio. Era stato usato poche notti. Non l’avrebbe usato più.
Il suo cuore gonfio dell’entusiasmo per la nuova vita che aveva appena imboccato si era inaridito in un momento, diventando grinzoso come una mela dimenticata sul davanzale.
Non pianse quando le spiegarono del temporale improvviso e della barca rovesciata. Non pianse quando una mattina all’alba la chiamarono sulla spiaggia a riconoscere il corpo che il mare le aveva voluto restituire.
Non pianse neppure quando lo vide scendere sotto la terra del cimitero di Portovenere, il paese dove era nato guardando i flutti infrangersi sugli scogli e dove avrebbe voluto riposare sentendo il suono della risacca.
Pianse solo un mese dopo il funerale quando una mattina di sole salendo verso la strada un conato di nausea improvviso la costrinse a piegarsi in due dandole la certezza che suo marito non se ne era andato del tutto.
Aveva lasciato dentro di lei un pezzo di sé. Suo figlio Enrico.

Credette per un po’ di anni che la mela dentro il suo petto si fosse intrisa di acqua fino a tornare bella soda e lucida come all’inizio.
Lo credette fino al giorno in cui il mare decise di completare il lavoro lasciato a metà e chiese al vento di trasformarlo in un animale affamato di vita.
Come fosse andata non interessava granché alla Maria. Non le interessava sapere che un ragazzo stava per annegare e che Enrico si era buttato per salvarlo. Che era riuscito con l’incoscienza dei suoi quattordici anni a raggiungerlo e a legargli la sagola intorno alle spalle.
Che gli aveva salvato la vita prima di sparire tra i flutti saziando per un po’ di tempo la fame del mare. Le interessava solo che era morto suo figlio.
Quando le parlavano non ascoltava. Teneva gli occhi verso quella distesa azzurra che ora sembrava irriderla con la sua tranquillità.
La guardava. Cercava di capire il motivo. E la odiava furiosamente.
Odiò il mare e il vento, poi odiò Dio ed infine odiò la gente.
Odiò per molti anni e ad ogni stilla di odio si sentiva il cuore inaridire un pochino in più. E non capiva come quella mela secca potesse ancora asciugarsi, stringersi sul torsolo, avere ancora semi da far cadere.

Un giorno di primavera era seduta sul molo ad aspettare che arrivasse la barca con il pesce per il suo negozio. Aveva scelto di fare la pesciaiola.
Forse aveva pensato così di uccidere un po’ alla volta il suo nemico e piano piano di vendicarsi. O forse era solo un lavoro come un altro che le riempiva le giornate e le impediva di pensare.
Teneva le gambe a penzoloni giù dalla massicciata del molo e allungava le dita dei piedi cercando invano di sfiorare l’acqua.
Quel prete che non aveva mai visto le si sedette vicino. Si levò le scarpe e i calzini bianchi. Sollevò i pantaloni neri fino al polpaccio e fece dondolare le gambe fissando l’acqua con gli occhi azzurri.
La Maria notò con la coda dell’occhio che il prete riusciva a toccare l’acqua e provò una breve stupida invidia.
Il silenzio durò alcuni minuti in cui il prete sembrava concentrato sui pesciolini argentati che si avvicinavano incuriositi al suo piede. Poi parlò con una voce profonda che metteva serenità.
“Dio è misericordia, Maria”, disse continuando a fissare l’acqua.
“Dio è un assassino e il mare è il suo sicario”, rispose la donna senza dare peso al fatto che il prete conoscesse il suo nome. “Sa come dicono i vecchi di qui? U mà, u l’ha u nume cun lè. In dialetto mare e male sono la stessa parola. Il mare non è la vita, è la morte, hanno ragione i vecchi.”
“Vedi, Maria. Se io pensassi che quello che ti è accaduto è un disegno divino mi toglierei questo crocifisso e lo butterei in mare. Lo guarderei andare a fondo e gli chiederei di mangiarselo come ha fatto come i tuoi.”
Respirò sentendo che la donna piangeva.
“Tu hai ragione di essere arrabbiata. Ma devi capire che Lui non ne ha colpa. Che quel giorno ha pianto. Dio è amore e mai avrebbe voluto che il tuo amore si spezzasse.”
La donna fece per dire qualcosa ma fu zittita da un gesto delicato della mano del prete.
“Guarda, stanno arrivando i pescatori. Non vorrai che ti vedano piangere.”
Le accarezzò i capelli, si rialzò prendendo in mano le calze e le scarpe e si avviò sul molo tenendo i pantaloni sui polpacci. Dopo pochi metri si fermò per mettersi a posto i capelli neri mossi dal vento.
“Io mi chiamo Ernesto. Sto un po’ di giorni qui se hai voglia di fare quattro chiacchiere.”

Si scosse dai ricordi e si fece forza di attraversare lo studio. Vide il computer portatile di Don Ernesto con lo schermo rotto che emergeva dietro una catasta di oggetti.
Sentì un brivido lungo la schiena vedendo la sedia con la gamba spezzata in mezzo alla pozza di…
“Di sangue”, si disse.
Fosse stata la Luciana o la Luisa avrebbe pensato che ci potessero essere ancora speranze. Che magari il parroco era riuscito a scappare. In fondo c’era il sangue ma non c’era nessun corpo.
Ma la Maria con il suo doloroso istinto non la fregavi con le illusioni. Anche se la mela si era un po’ reidratata l’istinto non era scomparso.
Entrò nella camera da letto e abbassò l’interruttore della luce. Il tremore aumentò vedendo sul letto il cadavere dell’uomo che trent’anni prima le aveva reinsegnato l’amore sedendosi vicino a lei sul molo di Monterosso.
Fece per carezzare il volto sporco di sangue e i capelli che erano tornati scuri come quella volta ma si fermò con la mano a pochi centimetri da lui.
Scorse lo stesso la mano senza toccarlo e singhiozzò piano.

(nel mio cassetto, tra i proverbiali calzini, c’è un romanzo che ho scritto dieci anni fa. forse si chiama “altro me stesso” o forse “salmo 55”, ancora non si decide. questo è il capitolo in cui maria, la pesciaiola di monterosso, scopre il cadavere di don ernesto. maria, peraltro, è esistita davvero come donna e come pesciaiola ma questa storia del marito e del figlio l’ho inventata io, che la realtà non è mica così drammatica)

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(questo racconto ha partecipato al premio Gutenberg, ed è davvero davvero bello. leggetelo che vi fa bene. grazie a Vincenzo per avermi autorizzato a metterlo qua)

Mi chiamo Mara. Mi sveglio con le prime luci dell’alba. Vivo in strada. È stata una notte fredda, e ho sofferto nonostante i cartoni e gli stracci con i quali ho tentato di coprirmi. Gli altri senzatetto della stazione centrale si alzano dalle loro cucce. Tra poco comincerà la giornata anche per “i normali”. Quelli produttivi, vivi, visibili, inquadrati nelle divise sociali che rendono accettabili. Andranno a prendere il treno per riunioni in altre città, a lezione all’università, nella metropolitana che li ingoierà come fanno i serpenti con le uova. Saranno l’ingranaggio della grande macchina della società produttiva. Con una cravatta, uno shampoo e una sciarpa di cashmere ottengono un biglietto per la città dei giusti. È un viaggio di sola andata. Io invece faccio parte degli invisibili. Ho scelto di non essere la parte di un tutto che non mi rappresenta. Non più. Scelgo di non scegliere per non sbagliare ancora. Vivo senza esistere, guardo la luna senza andare in nessun posto. Sono una goccia in un oceano, un punto che viene quotidianamente scavalcato e ignorato come un volantino caduto dal parabrezza di un’automobile. A noi va bene così, considerando che quando si rendono conto della nostra presenza ci umiliano. L’altro ieri un ragazzo con la faccia feroce e un odore acre mi ha dato un calcio. Ha colpito forte, mentre me ne stavo accucciata davanti a una grata da cui usciva un po’ di aria calda. Sono scappata via. I suoi compagni ridevano per la mia andatura incerta. Zoppico un po’ a causa dei malanni che non ho mai curato.

Ho gli occhi celesti, ma probabilmente da quando la strada è la mia casa nessuno c’ha mai fatto caso. Ho tra i 60 e i 65 anni, credo. Una volta ero in forma. Correvo ogni mattina con il mio compagno. Partivamo dal centro di Roma e scendevamo le scalette davanti a Castel Sant’Angelo per arrivare sotto, lungo il fiume. Era bello, mi sentivo viva. I ponti che si riflettono sulla superficie verde del fiume creano dei grandi cerchi, occhi nei quali entravamo durante le nostre corsette. Ora sono talmente lenta che alla mensa dei poveri arrivo sempre in ritardo, e non mi fanno entrare. Andare prima non se ne parla: la fila per la cena comincia alle 17, quando io sono in giro a cercare nei rifiuti dei mercati qualcosa da mangiare. Alla mensa di via Marsala mi accontento di qualche avanzo che mi porta un anziano tunisino. Quel poveretto passa la giornata a pulire i vetri ai semafori di piazza della Repubblica. Con amara ironia dice sempre che da piccolo sognava di lavorare in centro, in una grande città. Gli hanno rubato l’attrezzo per pulire i parabrezza e ora si limita a sfregare i vetri dei fari delle macchine con un panno lercio. “E devo pure pagare quei tre criminali che mi affittano il semaforo” mi ripete ogni giorno dandomi una pacca sulla schiena mentre mangio. Forse è il mio unico contatto umano. Mi lascia sempre un pezzetto di pane e il polpettone che sa di cartone. Meglio di niente. “Mara piano, sennò ti strozzi”. Lo mangio con ferocia, quasi senza masticarlo. Meglio non farsi vedere con del cibo. Aziz il tunisino è il mio unico amico, se così si può definire un altro senzatetto.

La competizione per la sopravvivenza è feroce. Ogni mese a piazza Vittorio, su quelle panchine offese dalle scritte dei writers, si fa il conto dei caduti: “Stanotte è morto Josaphat, il marchigiano con l’occhio di vetro. L’hanno trovato sdraiato davanti alla saracinesca di un emporio indiano sotto a una montagna di giornali, abbracciato a un cartone da 2 litri di vinaccio. Gli avevano pure rubato le scarpe”. È un macabro bollettino, ma tutti lo ascoltano con attenzione. Magari è sparito quello che ti doveva 3 euro, e anche questa settimana non si mangia. Aziz mi racconta sempre di suo fratello che sta a Milano e lavora in un supermercato. Dice che gli manca. Ogni volta io lo guardo implorando di smetterla. Oggi finalmente ha capito. “Scusa Mara, non volevo ricordarti Sergio”. Lo diceva mentre un pakistano gli tagliava i capelli. A via di Castro Pretorio c’è questo tipo che per qualche spiccio ti sforbicia i capelli. Ti fa sedere su una cassa di legno da frutta e senza ascoltare quello che dici comincia a tagliare. Sembra sapere quello che fa. In questo periodo ha poco da fare, è inverno. Noi “senza dimora” badiamo al sodo, e con il gelo i capelli lunghi aiutano a proteggere dal freddo. A me comunque quel tipo non taglia un bel nulla. Non lo voglio io e, in fondo, credo che non lo voglia nemmeno lui. Sono ipertricotica, porto una fascia di velluto che mi aveva regalato il mio compagno troppo tempo fa. Non mi curo e questo crea un risultato che certamente non attrae.

Quando c’era Sergio non mi trascuravo e non avevo mai freddo. La domenica mattina andavamo al parco. Quelle incredibili giornate autunnali in cui gli alberi e le foglie sembrano infuocate, dipinte di tutte i toni di rosso. Lui leggeva i suoi giornali, a volte mi raccontava le notizie che lo colpivano di più. Sapeva bene che non mi interessavano molto, ma era bello condividere. Il mio mestiere era un altro, ed era grazie ad esso che c’eravamo conosciuti. Ci siamo trovati a Yakhroma, una piccola provincia russa a nord di Mosca. Lì quando c’è il sole tutti vanno sul canale a guardare i riflessi della luce sull’acqua. La gente cammina serena, con il sorriso placido di chi non ha mai cambiato lavoro. Io ero impiegata nei trasporti, specializzata in casi d’emergenza. Dove la neve sembrava non dare possibilità di passaggio, io e la mia squadra passavamo. Mi fa ridere pensare a quanto il tempo fosse importante per me. Adesso mi passa davanti come un perfetto sconosciuto, e io non gli presto la minima attenzione. Prima rappresentava tutto. Il tempo era denaro, il denaro era vita, la vita era fottuta. Se non portavo a termine un compito i “padroni” non pagavano. Se non giravano soldi io non mangiavo. E mangiare era la parte della giornata che preferivo.

Un giorno arrivò Sergio, un manager romano della Sda spedizioni che era rimasto bloccato nella piccola stazione cittadina. 15mila abitanti russi non possono certo pretendere la Stazione Termini. Dopo che lo riportammo a Mosca con delle slitte non volle più separarsi da me. Diceva che ero bellissima e i miei occhi l’avevano stregato. Io non rispondevo nulla, mi limitavo a sorridere. Successe tutto molto velocemente. Mi trasferii a Roma dove non lavorai più, non ne avevo bisogno. A volte giravo per il quartiere alla ricerca dei profumi, dei colori e del calore del sole. Non ero abituata alla magnificenza di una metropoli. Non ne avevo mai vista una, a parte Mosca. Ascoltavo la nuova lingua e cercavo di imparare le parole di base. D’estate impazzivo per l’odore dell’aria, una cosa del tutto nuova e affascinante. Annusavo il vento e sentivo i fiori, il pane del fornaio del quartiere ebraico, il gelato alla fragola dei bambini, gli scarichi del Tevere all’isola Tiberina e lo smog dei camion.

Non mi sembra più quella città. Vivo cercando di limitare i danni. Nessuno mi guarda pensando che sono bella. Ho una ferita ad un occhio che non riesco a tenere aperto, una cicatrice in testa e sono sporca, emano un cattivo odore. Perché tutto quello che per gli altri ha un senso per me non ce l’ha. Se l’è portato via Sergio, il significato della mia vita. Perché lavarmi? Ogni tanto qualche vecchietta di San Lorenzo mi invita a mangiare qualcosa. Ma è solo una scusa, poi vorrebbero che mi lavassi. Le gattare di Roma sono una categoria umana pericolosa. Hanno territori specifici come gli animali. Scendono dalle loro case popolari con la vestaglia del mercatino, le calze con l’elastico rotto, i bigodini in testa e il cibo per gatti dentro a piatti di plastica. Hanno sguardi feroci, pronti a cogliere in fallo chi disturba i gatti. E io sono una di quelli. Non mi piacciono i gatti. Forse perché li invidio. Passano la giornata a sonnecchiare e a guardarti con quell’aria di chi t’ha truffato. Le gattare di San Lorenzo cercano di farmi capire che quegli stupidi felini sono animali intelligenti, puliti, precisi. Tutto il contrario di me. Io odio i gatti. A me piacciono i cani. Piacevano, anzi, quando ancora vivevo le emozioni della vita.

Nessuno riesce a rispettare la mia scelta. Abbiamo diverse etichette. Randagi, barboni, accattoni, clochard. Homeless, derelitti, falliti, bastardi, figli di nessuno, bestie, mortidifame. Siamo solo esseri viventi che non riescono a integrarsi in un sistema che li ha rigettati. Infezioni che nessuno vuole curare perché impressionano. Rappresentiamo uno spauracchio, il simbolo del fallimento che le madri possono indicare ai figli che non vogliono studiare.

Il macro sistema sociale della Stazione in cui vivo è ben definito. Noi siamo l’ultima ruota del carro. Sopra di noi ci sono gli ubriaconi. Non vivono in strada, per quanto ci passino la maggior parte del loro tempo. Vengono qui perché nessuno ha il tempo o la voglia di guardarli. La gente che viaggia li evita come lebbrosi, noi non vogliamo essere confusi con loro. Perché chi ha una casa dove tornare non è dei nostri. Scelgono di poter far un passo indietro. E poi gli alcoolisti non ragionano. Cercano lo scontro verbale e quando lo trovano si picchiano. Per poi abbracciarsi. Vivono su una montagna russa emotiva che stroncherebbe un cavallo. Subito sopra di loro ci sono i drogati. Sono caratterizzati dall’avere un obiettivo: la dose. Non pensano ad altro e possono essere molto violenti. A me piacciono, in realtà. Non so per quale strano motivo ma con me sono sempre gentili. E non può essere solo la pena. Spesso mi danno qualcosa da mettere sotto i denti. L’appetito a loro è sparito da tempo. Poi, procedendo nella “piramide” di Termini, trovano spazio i ladri. Quelli sì che sono dei parassiti. Truffano la gente in tutti i modi. Di solito girano in coppia, uno va a sbattere contro la vittima e l’altro gli sottrae il portafogli o la macchina fotografica. Non si fermano mai, come una catena di montaggio. Troppo veloci per essere visti dalla sicurezza, hanno dei turni organizzati. Infine ci sono gli impiegati della stazione e la gente comune. I lavoratori di Termini hanno la tipica espressione di chi ha dovuto ripiegare sul primo lavoro trovato in un momento di crisi. La gente comune rappresenta il vertice piramidale. Ha fretta, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Non interagisce in nessun modo con le altre categorie se non per lamentarsene.

Noi dannati viviamo in questo spazio perché per non sentirci morti a tutti gli effetti abbiamo bisogno che qualcuno ci ignori. Se non stessimo qui ci massacrerebbero. Finiremmo davvero per credere di non essere vivi. Io, inoltre, ho un motivo in più per vivere qui. È stato l’ultimo posto dove sono stato con Sergio. Lui aveva 51 anni, io 40. Doveva partire per Genova dove aveva una conferenza della sua azienda. Lo avevamo accompagnato ai binari io e Giovanna, la portiera del palazzo dove vivevamo. Lei lo conosceva da quando era piccolo. Arrivammo sui binari di mattina presto. Per me allora la stazione era un luogo come tanti, un punto di passaggio. Io mi guardavo intorno perché dopo 3 anni in città ancora non mi ero abituata ai grandi spazi, alla folla. Aspettavamo il treno seduti davanti ai tabelloni elettronici che raccontavano di viaggi da tutti i luoghi del mondo e d’Europa.

Vicino a noi c’era una coppia di ragazzi con lo zaino e un piccolo yorkshire che si affannava a correre dietro ad una pallina. I padroni, due giovani tedeschi che viaggiavano zaino in spalla con gli occhi gonfi di sonno, puntualmente gli tiravano la palla. Sembrava un gioco divertente, a giudicare da come ridevano. Un lancio del ragazzo, alto almeno quanto pallido, superò il muretto alto mezzo metro che delimitava lo spazio dei binari. Fino a quel momento la palla ci aveva rimbalzato per poi tornare indietro. Axel, così si chiamava l’ipercinetico cane, non ci pensò troppo e si lanciò oltre. Successe tutto molto in fretta. Ricordo ancora ogni singolo istante e lo rivivo al rallentatore. Qualsiasi particolare è stampato nella mia mente. Ho memoria di tutto quello che accadde. La percezione si è fermata a quel giorno. Da quell’istante non ho più vissuto, sono esistita.

Il cane salta il muretto. I tedeschi urlano ordini incomprensibili. La portiera si porta le mani alla bocca e invoca la Vergine Maria. Gli altoparlanti annunciano il treno in arrivo da Bologna sul binario 8, accanto al nostro. Una macchinetta a quattro ruote di quelle usate per pulire il pavimento mi passa davanti per una decina di secondi. Nell’aria c’è il forte odore di fritto del Mac Donald’s. Un bambino piange e strilla mentre il padre lo tiene per mano in fila alla biglietteria. Un ubriaco ciuccia avide sorsate dalla sua bottiglia di vino scadente come farebbe un bambino con la coca cola fresca d’estate. Ha un’espressione beata, sospeso in un mondo lontano anni luce da quello che sta accadendo. Una vecchia signora polemizza sul ritardo di un treno. Una ragazza strilla al telefonino mentre prende a calci il suo trolley. Un uomo obeso con la pancia sul punto di esplodere tiene una sigaretta pendente tra le labbra. Non aspira, la cenere è ancora attaccata e sembra non voler cadere in barba alle leggi di gravità. L’odore di disinfettante passato dentro ad un bar dietro i tabelloni orari. Il fischio di un impiegato delle ferrovie. Due studenti seduti per terra che dividono gli auricolari di un iPod su cui Biagio Antonacci sta cantando delle improbabili rime. L’odore della tunica nera della Morte che mi passa davanti.

Sergio si alza e si avvicina al binario 8. Ha un amore innato per i cani. Lo adoro anche per questo. Intanto in fondo, dietro al curvone si vede l’Eurostar in arrivo. Il cane continua a cercare la pallina sotto al muretto, ma è entrata in una buca. Il treno si avvicina, ha superato la curva. Sergio vive gli ultimi minuti della sua vita. Io sento morire la mia anima per la prima volta.

Sergio cerca di tirare su il cagnolino mentre quegli idioti dei padroni parlano con un poliziotto, sbracciandosi. Chissà che poteva fare un uomo in divisa…

Il treno è a 200 metri da Axel continua a ringhiare alla palla. Il mio uomo continua a ripetere comandi al cane. Non posso restare ferma. Mi alzo e senza pensarci salto giù sui binari. Scivolo sul brecciolino che divide le linee di metallo su cui scorrono le locomotive. Prendo Axel per la collottola e lo porto su, al sicuro. La portiera mi viene incontro e mi abbraccia, ringraziando la Madonna di Galatina. Sorrido e cerco Sergio per rimproverarlo della sua incoscienza. Non lo trovo. Vedo quattro persone intorno a dove stava fino a qualche secondo prima.

Gli altoparlanti dicono che il treno in partenza per Reggio Calabria è pronto sul binario 12. L’orologio segna le 14.27. Le ragazzine cantano con Antonacci che Iris e le poesie e non so che altro. Il ciccione si è alzato, la cenere gli è caduta sulla camicia e guarda in direzione di Sergio, sdraiato in terra con un’espressione di dolore che gli deforma il viso come un amplesso proibito. La ragazzina che stava al telefonino piange mentre guarda il display. Il rumore della macchina che pulisce a terra viene da lontano.

Mi butto su Sergio, piangendo. “Portatela via, e chiamate un’ambulanza” dice una signora. Un altro le risponde “Sono un medico. Mi lasci sentire se respira”. Il dottore tenta un massaggio cardiaco ma il mio uomo è già andato via, per sempre.

Mi chiamo Mara, adesso. Prima ero Nika. Tutto è cambiato da quel maledetto lunedì. Non sono voluta tornare a casa perché ogni giorno, alle 14.27, vado davanti a quel muretto. Una piccola targhetta che non riesco a leggere dice “Sergio Camerani, 1950-2001”. Mi accuccio lì e penso a lui. Per un po’, giusto il tempo di ricordarmi che non sono più niente, non ho emozioni. Un bambino aggrappato alla gonna della madre mi indica. “Mamma mamma, belo!” dice eccitato. “Ma no Luca, non lo vedi che è tutto sporco e malato?”. “Ma ci ha un ochio belo, mama, azzurro come il tuo!” risponde piccato il bambino. “E’ un Husky, Luca, adesso fai il bravo e cammina” ordina la madre mentre lo trascina via.

Ero un Husky. Ero un cane. Adesso sono Mara la randagia. Mi ha chiamato così Aziz dopo aver visto che tutti i giorni vado davanti a quella targa. Memoriamara. Mara.

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