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“…anche se ormai sarà chiaro da tempo che di quello si trattava, una guerra, una guerra feroce tra verità e libertà, tu, quelli come te schierati dalla parte della verità essendo la libertà ormai stata trasformata in un concetto ostile, digrignante e imperdonabilmente plurale – le libertà, le infinite libertà in cui quella parola sarà stata smembrata, come la zebra viene smembrata dal branco di iene che la divorano, libertà di scegliere sempre ciò che si preferisce, libertà di ricusare ogni autorità che cerchi d’impedirlo, libertà di non sottomettersi alle leggi sgradite, di non rispettare i valori fondativi, la tradizione, le istituzioni, il patto sociale, gli accordi presi in passato, libertà di non arrendersi all’evidenza, libertà di insorgere contro la cultura, contro l’arte e contro la scienza, libertà di curare secondo protocolli non riconosciuti dalla comunità o, per converso, di non curare affatto, non vaccinare, non usare gli antibiotici, libertà di non credere ai fatti documentati, libertà di credere invece alle notizie false e libertà di produrne, anche, libertà di produrre emissioni dannose, rifiuti tossici, residui radioattivi, libertà di gettare in mare materiali non biodegradabili, di inquinare le falde acquifere e i fondali marini, libertà per le donne di essere maschiliste, per gli uomini di essere sessisti, libertà di sparare addosso a chi entra in casa tua, libertà di respingere i profughi e rimandarli nei lager, libertà di lasciar affogare i naufraghi, di odiare le religioni che non siano la propria, i modi di mangiare e di vestirsi che non siano i propri, libertà di disprezzare i vegetariani e i vegani, libertà di cacciare gli elefanti, le balene, i rinoceronti, le giraffe, i lupi, gli istrici , i mufloni, libertà di essere crudeli, scorretti, egoisti, ignoranti, omofobi, antisemiti, islamofobi, razzisti, negazionisti, fascisti, nazisti, libertà di pronunciare le parole “ne*ro”, “subnormale”, “zingaro”, “paralitico”, “mongoloide”, “culattone”, di gridarle, addirittura, libertà di perseguire solo e soltanto il proprio interesse, di sbagliare sapendo di sbagliare e di combattere fino alla morte contro chi vorrà eliminare l’errore poiché della libertà esso, l’errore, non la Costituzione, sarà considerato il garante”

Il custode di Calci

Quando entriamo nell’atrio della Certosa sta diluviando. La macchina è nel parcheggio infangato e noi siamo riusciti ad arrivare al coperto saltando le pozzanghere.

Il custode ci raccoglie in un gruppo per la visita e precisa subito che non guarderà se abbiamo i biglietti perché non ha gli occhiali. In realtà ce li ha addosso, ma dice che non ci vede lo stesso, e siamo solo all’inizio.

E’ un ometto dagli occhi cerulei, infagottato in una giacca a vento sponsorizzata da un negozio di Follonica forse un po’ grande per lui. Ci mostra un mazzo con decine di chiavi. “Io non sono una guida, ma senza di me qui nessuno entra.” Poi ripete che non è una guida, quindi di non dare troppo peso a quello che dirà. Infine ci chiede i soldi per restaurare la Certosa, che cade a pezzi perché il Ministro di prima ha fatto casino e questo fa casino e i politici sono ladri e nessuno investe nella cultura e lui deve lavorare sette giorni perché non c’è giorno di chiusura ma contemporaneamente deve fare il riposo perché così prescrive la legge. Prende fiato, ci guardiamo.

Ammetto che l’inizio è stato straniante e poteva preludere a una visita dai toni surreali. Invece non appena ha chiarito che era lui a governare il gruppo e ha imposto il suo tono presaculesco abbiamo fatto pace ed è stato la miglior guida che si potesse chiedere.

Ci ha raccontato dei certosini, della loro vita di silenzio e preghiera (“io, che in chiesa ci vo il meno possibile”), mentre percorrevamo questa enorme e delicatissima struttura ancora miracolosamente intatta per la maggior parte ma sottoposta a infiltrazioni e puntellamenti che fanno presagire il peggio. Con il suo modo informale si è preso la nostra attenzione per portarla su qualcosa che evidentemente gli sta davvero a cuore.

Poi ci ha accompagnato all’uscita, consigliando un ristorante che ci avrebbe trattato benissimo, a patto di dire che ci aveva mandato lui, l’ultimo certosino di Calci.

Immagino la sera, quando gli ultimi visitatori lasciano la Certosa, lui che chiude dall’interno la grande porta di accesso e poi si reca nella sua cella, dove leva la stupida giacca di Follonica e veste il suo saio. Nel refettorio, sotto gli affreschi che rappresentano le visite dei Granduchi ai certosini, si siede al bancone e aspetta che venga servita la zuppa di verdure, in silenzio e in preghiera, ridacchiando tra sé.

 

 

 

Mattia

Mattia ora è seduto al tavolo grande del secondo piano, nel posto in cui si trova. Ha un mano uno dei suoi libri, magari un fantasy o un saggio strano, e lo sguardo immerso dentro mentre aspetta il suo turno, così diverso dai colleghi impegnati nelle discussioni sul calcio.

Mattia di cognome fa la ragione sociale del suo spedizioniere, perché per noi questi ragazzi si chiamano così, Luca di X, Matteo di Y. Poi magari li incontri su Facebook e scopri il loro cognome vero, ma continuerai a chiamarli nel modo sbagliato.

Mattia era un vero pirata, a partire dalla sua faccia e dal suo abbigliamento disinteressati al parere altrui, e a questo pirata si chiedevano le dritte per trovare nel mare di internet le baie dei fuorilegge.

Mattia è entrato in ospedale con il papà del mio amico Stefano, che ora fortunatamente è guarito.

Mattia, invece, se ne è andato in pochi mesi perché forse di questo mondo aveva scaricato tutti i film e letto tutti i libri strani, e lì dove è ora ne troverà di nuovo.

Buona ricerca, pirata.

I pantaloni cattivi

Ciascuno di noi ha, nascosto nell’armadio, un paio di pantaloni cattivi.

Li ha comprati una volta, mentre probabilmente era ubriaco, nel punto zenit della dieta (cioè quando la gente ti chiede se non stai dimagrendo troppo), e probabilmente anche quel giorno lì erano stretti ma li ha presi lo stesso dicendo magari butto giù qualche altro chilo.

E invece, sad story, non solo non ne ha buttati giù altri ma ha ripreso quelli che aveva perso e un giorno, nel punto nadir della dieta (cioè quando la gente ti dice rimesso su qualche chilo?), probabilmente ubriaco, scava nell’armadio e dice hey quei pantaloni è un sacco che non li metto.

Se riesce a scorrerli su per le gambe – e non è detto – rimarrà attonito nel vedere bottone e asola che si salutano come parenti emigrati in continenti lontani. Li toglie in fretta e li nasconde nuovamente, imprecando contro il dio delle calorie e la stupidità dei modelli Cotton&Silk.

Ci si deprime, si progettano diete che non si faranno, ci si guarda allo specchio di profilo, mentre nel buio i pantaloni cattivi sembrano sorridere.

Dopo Lisbona era stato il momento di rileggere Sostiene Pereira e le poesie di Pessoa. Ora, dopo Berlino, è stato quello di approfondire gli anni del Muro. E allora è d’obbligo ripescare due piccoli capolavori come Goodbye Lenin (Alex! I cetriolini!) e Le vite degli altri, oltre che l’inevitabile Wenders.

Ma in più cercavo un libro che raccontasse la vita dell’Est e per un colpo di fortuna sono capitato su C’era una volta la DDR di Anne Funder (Stasiland nel titolo originale). La Funder è una giovane australiana che per diverse vie si trova a vivere nella Berlino riunificata. Mentre cerca una storia da scrivere capisce che attorno a lei ci sono decine di storie che la stanno cercando: ragazze finite nelle carceri dell’est, madri separate dai figli, musicisti rock messi al bando, insomma il campionario criminale del periodo comunista.

Tra i racconti che la Funder ha romanzato, pur mantenendone la sincerità, mi piace lasciare al blog questa storia che somma tragedia e farsa in maniera esemplare.

Herr Koch è l’uomo che fisicamente ha disegnato con la vernice bianca il tracciato del muro di Berlino, sotto la supervisione di Honecker in persona. Figlio di un maestro elementare della DDR (a sua volta protagonista di una vicenda di persecuzione), Herr Koch era stato scelto dalla Stasi in quanto disegnatore tecnico per il progetto della tracciatura del muro, nonostante non avesse la minima esperienza di mappe e cartografia.

In seguito aveva avuto svariati ripensamenti sul suo ruolo nella Stasi, si era dimesso ed era stato obbligato a rientrare, trasferito dai ruoli tecnici a funzioni culturali.

Il giorno che decide nuovamente – e definitivamente – di dimettersi dalla Stasi raccoglie le sua cose in ufficio e l’occhio cade su una targa di plastica, fintamente cromata in oro, che celebra un successo culturale della sua divisione. Istintivamente la stacca dal muro e se la porta via, quasi come segno tangibile della sua ribellione e della fine della sua vita precedente.

Nei mesi successivi si presentano a casa sua alcuni agenti della Stasi chiedendo che la targa venga restituita. Ma lui nega di averla presa e in seguito la nasconde dietro a un’intercapedine del bagno per non farla trovare, dove resta fino al 1989.

Dopo la riunificazione la stampa occidentale cerca personaggi interessanti che raccontino l’Est e a casa di Herr Koch – l’uomo che disegnò il tracciato del Muro! – arriva una troupe televisiva. Un cameraman chiede che venga spostata quella targa attaccata al muro, che “spara” in camera, ma Herr Koch pretende che resti nell’inquadratura. Ormai è diventata il suo feticcio.

Non si aspetta però che di lì a poco si presenti a casa sua una delegazione di un organismo che si occupa della tutela dei beni ex DDR. Hanno visto la targa nel servizio televisivo ed ora la vogliono indietro in quanto bene della DDR sottratto illegalmente.

Anche quando Herr Koch li convince che gli appartiene in quanto capo dell’ufficio che era stato destinatario della targa, la storia non è finita. Gli arriva un’ingiunzione del Tribunale per aver testimoniato il falso quando ha detto agli agenti della Stasi di non averla presa lui.

Herr Koch non arriverà mai al processo in quanto a un certo punto qualcuno, con imprevedibile slancio di lucidità, ha quantificato il valore della targa in pochi centesimi di marco e ha ritenuto che tale valore non giustificasse il prosieguo della causa. E Herr Koch ha potuto finalmente godersi la vista della targa rubata alla Stasi, appesa nel suo studio.

 

Tredici

C’eri già in quella vacanza sulle Dolomiti, quando pioveva sempre e io leggevo Wilbur Smith e in quei pomeriggi in stanza abbiamo cominciato a pensare che avevamo voglia di averti con noi.

C’eri anche qualche anno dopo, quando pensavamo che la scienza ci avrebbe aiutato ad affrettare il tuo arrivo e invece ogni volta era speranza illusione delusione dolore e voglia di gettare la spugna, ma non l’abbiamo gettata.

C’eri quando abbiamo immaginato di trovarti in qualche altro continente e di portarti qui e abbiamo scoperto che anche la burocrazia e le leggi, come la scienza, erano stupide e fatte per mettere alla prova la nostra forza di volontà.

Ci sei stato quando hai deciso tu, senza scienza e senza leggi, e ci hai preso di sorpresa in quella notte di luglio in cui sono corso in giro per la città a cercare un test di gravidanza e il farmacista mi guardava come uno scemo.

Ci sei stato in quella mattina di marzo di tredici anni fa, tra le mie braccia e io non ci credevo che erano finiti quei nove mesi in cui in ogni istante pensavo che forse sarebbe stato ancora speranza illusione delusione dolore e invece c’era solo felicità, una roba che non avrei più provato, e si vede dalla faccia che ho nelle foto.

Ci sei oggi e hai tredici anni, aspetta che lo ripeto che altrimenti non ci credo neanch’io. Tredici anni. Tredici anni. Mi concentro su questo numero perché se penso che tra dodici mesi saranno quattordici mi viene una vertigine.

Al bambino che sei stato auguro di conservare la capacità di stupirsi e la voglia di imparare. All’uomo che stai diventando dico che in tre si fa meglio che da soli, e tu da solo non sarai mai.

Auguri, Fra.

Arrivi all’aeroporto di Schönefeld e ti aspetta uno dei treni che ti porta in città, a soli 3 euro a persona. Molti e puntualissimi, e siamo subito in Germania, si capisce. Gli schermi ti diranno quando arriverà il prossimo treno, bus, metro e tu sai che arriveranno esattamente al minuto indicato. E sai che non aspetterai mai più di cinque o dieci minuti alla fermata.

Ma non volevo partire con il luogo comune sulla puntualità tedesca. Piuttosto dire che quando il treno entra in Berlino dalla zona sud-orientale cominci a vedere questi palazzoni grigi che punteggeranno tutta la vacanza. Berlino non è Vienna o Parigi o Londra, lo vedi subito. Dopo il reset del 1945 la ricostruzione ha seguito due vie diverse: palazzoni brutti in stile sovietico a est, palazzoni brutti non in stile sovietico a ovest. Si sono salvate solo poche vie come la Ku’Damm vicino al cuore dell’allora zona occidentale, il resto sono grandi caseggiati gelidi e grigi.

Il treno passa vicino alla parte rimanente del muro, che vedremo domani, e sbuca in Alexander Platz. Il cuore della Berlino Est è una grande piazza squadrata dominata dalla spaziale Fernsehturm, che si vede da tutta la città. Gli Ossie volevano mostrare all’isola ricca che il comunismo sapeva fare cose maestose e modernissime e alzò questo monumento che ad oggi è la seconda struttura più alta d’Europa. Tutto ok finchè il sole sta ad est, ma quando passa la frontiera forma una croce sulla sfera della torre, perché anche a chi meglio pianifica qualche cazzata sfugge.

Arriviamo dalle parti dello zoo, dove si erge la Gedächtniskirche. L’amministrazione di Berlino Ovest decise allora di lasciare questo moncone di chiesa distrutta dai bombardamenti a perenne monito perché nulla capitasse di nuovo bla bla. Ad essa affiancò una chiesa moderna ed orrenda, che meglio dell’altra rinnova il monito a non fare cose brutte. Nel centro commerciale vintage dell’Europa Center mangiamo i nostri primi Currywurst e le prime patate. Nel resto della vacanza conosceremo le polpette berlinesi e i bomboloni ripieni, oltre a imparare che l’acqua minerale qui costa molto più della birra.

Il nostro hotel è in Wittenbergsplatz, in una delle zone più eleganti della zona occidentale. Il Mercure è un hotel di design, così dice Tripadvisor, ma pare che il designer abbia preso troppo seriamente il suo compito. Nelle stanze e nei bagni ci sono gigantografie di una donna bionda e leggermente strabica, tipo Hanna Schigulla di quando ero bambino. Forse rappresenta Berlino, forse era una sua amica a cui doveva un favore. Accanto all’hotel c’è il KaDeWe (Kaufhaus des Westens), di sicuro il più lussuoso magazzino che abbia mai visto in vita mia: ai tempi della divisione era la vetrina di quello che di là non si poteva avere, ora è la vetrina di quello che solo alcuni possono avere, a condizione di avere ricche carte di credito. La parte alimentare del penultimo piano è comunque davvero spettacolare.

Prima di cena riusciamo a visitare il Museo della DDR, una vera e propria chicca nascosta in alcuni locali sulla riva della Spree. Meritava più attenzione e meno stanchezza, e soprattutto ora che ho letto molto di più su quel mondo di matti lo avrei apprezzato maggiormente. Il dettaglio del racconto della vita nella DDR è maniacale ed esposto in modo interattivo, tanto sotto gli aspetti quotidiani (il cibo, gli asili, la Trabant) quanto sotto quelli dell’orrore (la Stasi, l’apparato politico, i privilegi della casta). Al termine del percorso c’è la ricostruzione delle stanze di una casa della Berlino Est, e pare pazzesco che pochi metri di distanza e qualche tonnellata di cemento tirata su abbiano potuto essere sufficienti a tenere un intero popolo sotto vetro per trent’anni.

Il secondo giorno inizia con la colazione in una Bäckerei e veniamo a contatto con il tipico Schnauze (grugno), ovvero con la scortesia manifestata dal negoziante berlinese verso qualsivoglia richiesta riceva. Una roba che può sconvolgere molti, ma che appare normale a chi viene dalla Liguria.

Il complesso dei musei raggruppati sulla Museuminsel al centro della Spree meriterebbe molto più tempo di quello che abbiamo in questo viaggio. Il progetto – in perenne evoluzione come tutto in questa città – prevede che in futuro tutti i principali musei cittadini vengano raccolti in questo complesso di edifici neoclassici. Scegliamo di fare il Pergamon Museum, pur consci della chiusura al pubblico dell’Ara di Pergamo per il restauro: la visione della babilonese Porta di Ishtar e in generale dei tesori della Mesopotamia vale comunque la visita, così come la raffinata collezione di arte islamica. Il biglietto del Pergamon include obbligatoriamente anche il Neues Museum con la celebre collezione egizia: per questa volta ci limitiamo a una visita al busto di Nefertiti, uno dei capolavori assoluti dell’arte antica e una delle emozioni più forti del viaggio.

Lasciamo l’isola ed è tempo di Muro. Con il veloce S-Bahn raggiungiamo la East Side Gallery, la parte di Berlino lungo la Spree in cui si è scelto di lasciare in piedi quasi due chilometri della barriera destinandoli ad ospitare affreschi e graffiti di artisti provenienti da tutto il mondo. E’ il nostro primo contatto con il Muro di Berlino, che per ora avevamo visto come traccia a terra (un percorso ciclabile contrassegnato da piastrelline indica il suo passaggio). Oggi ci si fanno le foto ridendo, è quasi passato un tempo uguale tra i trent’anni del suo servizio operativo e i trenta che ci portano dalla riunificazione ad oggi.

Ma solo stando lì capisci davvero cosa significhi. Da casa lo pensi come una linea di confine che oggi divide due stati e domani sparisce. Quando invece sei lì immagini come sarebbe casa tua se domani qualcuno alzasse una barriera e ti impedisse di passare di là. Una barriera di cemento, mine, cani da guardia e torrette con soldati che sparano. Per i comunisti era la “barriera protettiva antifascista” che doveva difendere il loro progetto dal cattivo Occidente che voleva prosciugarne le risorse e rubargli il popolo. Per i Vopos che lo difendevano era lavoro, anche se dice la leggenda che molte vittime siano state risparmiate dal fatto che ogni tanto qualcuno si ricordava che sia di là che di qua erano lo stesso popolo.

Nel pomeriggio il nostro viaggio nel Novecento fa un passo indietro. Torniamo al 27 febbraio del 1933, quando il Reichstag prende fuoco offrendo un buon pretesto a Hitler per dare avvio al Nazismo. Visitiamo il Reichstag di oggi, di nuovo sede del Parlamento della Germania unita e sovrastato dalla sontuosa cupola di Norman Foster, sicuramente la miglior opera architettonica degli ultimi anni. Sulla cupola si sale – previa prenotazione online o nello stand di fronte all’ingresso, con congruo anticipo – lungo un percorso elicoidale e l’audioguida illustra il panorama e le meraviglie tecnologiche dell’opera.

Dal Reichstag si raggiunge la Porta di Brandeburgo, il sipario delle manifestazioni naziste lungo il viale Unter den Linden e in seguito la saracinesca di Berlino Est. Su questo sfondo ci sono le foto più significative dell’ultimo secolo berlinese: le distruzioni dei bombardamenti, la zona della morte e i Vopos, i ragazzi in piedi sul Muro che festeggiano nella notte del 9 novembre 1989 la falsa notizia dell’apertura delle frontiere e fanno la storia mentre ancora la storia non aveva capito cosa stesse succedendo.

Pochi passi verso sud e siamo nel Memoriale dell’Olocausto. Inaugurato nel 2005 dopo un lungo dibattito sulla maniera più opportuna di erigere un monumento al senso di colpa dei tedeschi, consiste in un ampio slargo coperto da 2711 stele di pietra di uguali dimensioni ma di diversa altezza. Si cammina in mezzo a questo cimitero senza lapidi, ci si finisce letteralmente dentro. Altrove si danno i numeri e i volti dell’Olocausto, qui ci si limita a suggerire ed è la coscienza del singolo ad elaborare quanto ha visto.

Il terzo e ultimo giorno inizia con Checkpoint Charlie, a giudicare dal numero di persone presenti già al mattino di sicuro la meta più visitata di Berlino. Al centro della trafficata strada dove un tempo si fronteggiavano i blindati americani e quelli sovietici oggi hanno ricostruito il casottino del posto di blocco e figuranti in divisa si prestano alle foto turistiche. Tra le diverse alternative scegliamo di visitare la Haus am Checkpoint Charlie: nata in Bernauerstrasse contestualmente alla nascita del Muro, ha raccolto in questi 60 anni materiali di ogni genere sulla storia della barriera e soprattutto sui tentativi di fuga, fruttosi o tragici.

La mattina grigia ben si sposa con la visita allo Judisches Museum. L’opera di Daniel Libeskind è un museo concettuale nel quale la storia dell’Olocausto viene fatta immaginare con lunghi corridoi bianchi che si intersecano, alte torri gelide e buie, giardini di colonne di cemento e maschere di ferro sulle quali si cammina. Molto impattante, per noi ne è valsa assolutamente la pena.

Nel pomeriggio un veloce salto all’Olympiastadion e gli ultimi acquisti, prima di festeggiare in un ristorante italiano (ahimè) compleanno e fine della vacanza. Il proprietario, venuto qui nel 1976, ci racconta di Berlino Ovest come di un “luna park” in cui spie, soldi, militari e divertimento rendevano il tutto piuttosto surreale ma piacevole. La caduta del muro ha in certo modo “liberato” sia i tedeschi dell’est che quelli dell’ovest, facendo però cessare i privilegi di vivere in un’enclave coccolata dall’Occidente.

Lasciamo Berlino con la sensazione che ancora moltissimo manchi da vedere e che molto di nuovo nascerà in questo cantiere a cielo aperto. Per esempio non ho avuto traccia della vita movimentata di Berlino della quale si legge molto e che vista sembra così incongrua con una città così fredda e metodica: nel prossimo viaggio sarà indispensabile colmare questa lacuna.

In nessuna città che ho visitato ho mai sentito la storia così vicina, mai ho avuto così voglia di approfondire al ritorno i dubbi che mi erano rimasti. Questo è il principale pregio di Berlino, in qualche modo sopravvissuta al terribile Novecento del nostro continente.

Per festeggiare il ritorno dei blog scrivo anch’io un pezzo che non leggerà nessuno e che riempie il vuoto tra l’ultimo del luglio 2018 e il prossimo del 2021, tipo una storia familiare che mi aiuti a capire perché oggi mia mamma vota i grillini.

 

Siamo nel 1985 e i miei genitori devono fare un viaggio in Grecia. Ricordo bene l’anno perché pochi giorni prima della partenza c’è l’attentato a Fiumicino e loro devono partire proprio da Fiumicino, e nonostante le mie assurde preghiere di non partire (il mio io ansioso non conta che dopo un attentato si ha probabilmente il top della sicurezza) loro decidono di partire lo stesso.

In verità al posto di mio padre, bloccato da un problema di salute dello zio Bogliasco che vive con noi, parte il mio fratello undicenne ma non è questo il punto.

Il punto è che i miei erano ferocemente socialisti, all’epoca già turbocraxiani, e avevano negli occhi la fine della dittatura dei colonnelli e il governo di Andreas Papandreou. Socialisti al governo in un paese che era stato fascista fino a pochi anni prima, parte di un’ondata di socialismo democratico che in quegli anni stava diffondendosi in Europa. Vai, Clara, porta un garofano e saluta il paese dove il socialismo democratico si avvera.

Quando tornano dalla vacanza due immagini dominano il racconto di mia mamma.

  1. il vomito di mio fratello sulla barca per Egina, ma non è questo il punto
  2. un tassista di Atene che dice a mia mamma “Io ho votato Papandreou, ci avevamo creduto tanto. Oggi questa mano con cui l’ho votato me la taglierei”.

Quella mano con cui ha votato Craxi poi mia mamma se la sarebbe tagliata qualche anno dopo, e più tardi anche quella con cui ha votato Berlusconi.

Tra un po’ vorrà tagliarsi quella con cui ha votato i Cinquestelle e poi probabilmente la Lega in un maelstrom di peggio politico che sembra non avere fine.

Infine chiameremo l’arrotino perché i coltelli avranno perso il filo.

 

(Spoiler: oggi sappiamo che Papandreou e il figlio hanno effettivamente devastato l’economia greca con una ricetta a base di corruzione e clientelismo che ha portato al default del paese, i coltelli per tagliare le mani sono stati il primo bene a risentire dell’inflazione)

Josefa

TOPSHOT-LIBYA-EU-MIGRANTS-RESCUEQuando era aggrappata alla tavola Josefa non sapeva il nome dei politici che ogni giorno parlavano in televisione di quelli come lei, non ne conosceva la faccia. Non sapeva nemmeno in quale paese sarebbe arrivata, quindi ignorava se l’avrebbero accolta o rifiutata. Forse prima di partire un’idea ce l’aveva ma in quel momento aveva dimenticato tutti, le dita attaccate al pezzo di legno cotte dall’acqua.

Josefa non sapeva che molti in quel momento la stavano odiando perché andava da loro, probabilmente a mendicare o a prostituirsi, perché lavoro non ce n’è. Gente che non la conosceva nemmeno eppure la odiava con la precisione di chi riconosce un nemico, un invasore colorato che sporca la tua pelle, un pericolo generico che avrebbe riempito le loro scuole, gli ospedali, le strade, i negozi, toccato i loro figli, puzzato nei loro autobus.

Non conosceva, Josefa, il nome del bambino che stava sulla tavola, poco più in là. Lo aveva sentito piangere, sempre meno, poi visto muoversi piano, sempre meno, morire. Quando sei aggrappato a un relitto nel Mediterraneo non c’è spazio per la compassione. Sei concentrato sulle tue mani gonfie, sulla bocca che brucia, sul tuo respiro, non hai energia per commuoverti. Lo guardi in silenzio, stringi il legno.

Mentre vomitava acqua salata Josefa non avrebbe potuto dirti perché fosse partita. Lo sapeva che non sarebbe stato facile, ma pensi sempre che le cose cattive capitano agli altri. Forse sei disperata, forse incosciente, forse prevale la voglia di andare. Non avrebbe saputo dirti come aveva raccolto i soldi ma lo aveva fatto, non ti avrebbe raccontato quello che aveva passato nel lungo viaggio fino alla costa libica. Era tutto alle spalle.

La notte, quando sei attaccata a una tavola tra le onde, è uguale al giorno. Non guardi le stelle, non dormi. Svieni, rinvieni quando l’onda ti sbatte contro. Nel buio senti il rumore dei cadaveri che cadono in acqua e pensi che ora c’è meno peso, il relitto ti sosterrà meglio, stringi più forte. Poi il sole ti sbatte negli occhi ed è l’ultimo giorno che sei qua. O ti trovano o muori.

In quell’ultima mattina prima di essere trovata Josefa non sapeva che i suoi occhi sarebbero diventati una delle tante immagini simbolo di questa sciagurata era che viviamo. Immagini che scuotono lo stomaco e risvegliano le coscienze, giusto per qualche ora. Immagini che corroborano gli egoismi, lo facciamo proprio per evitare questo, è chiaro, in questo modo capiranno che non devono partire.

Josefa è viva, noi siamo ogni giorno più morti.

Il giorno che ti ho conosciuto c’era il sole

e sembrava uno di quei soli che

sono così forti che non ammettono una nuvola

nemmeno un’eclisse, figurati

che ci vuole una crema solare speciale

perché è un sole che passa

attraverso la protezione un milione

e attraverso i vestiti

e attraverso la cute il derma

e insomma ci siamo capiti

un sole forte

che pensi che non arriverà mai la notte

e ci sarà il sole a mezzanotte

senza essere a capo nord

e poi invece ti svegli e piove

e guardi fuori e ti chiedi

dov’è finito

non era mica così forte come sembrava

boh, delusione, pazienza.

 

Il giorno che ti ho conosciuto pioveva

e avevo dimenticato l’ombrello

che io non li porto mai dietro

perché li perdo

specie quelli piccoli

e forse c’è qualcosa di freudiano in questo

c’è sempre qualcosa di freudiano a ben vedere

o sono io che sono distratto e basta

comunque pioveva

e non avevo neanche le galosce

che sono quelle che coprono le scarpe, credo

e nemmeno il cappuccio sulla testa

insomma ero zuppo

ma non mi dispiaceva

perché a volte non è male inzupparsi

a meno che non sei un biscotto da colazione

in quel caso è la tua fine

comunque, dicevo, diluviava

camminavo pestando le pozzanghere come Peppa Pig

ero uno schifo insomma

poi mi sono girato e ti ho conosciuto

e ho capito dove era finito il sole.

 

(La lettura delle poesie di Guido Catalano mi ha fatto venire voglia di scrivere a mia volta sul suo stile. Tipo plagio, ma senza guadagnarci niente e con parole mie.)